Teoria dei jobs to be done: cos'è, a cosa serve, definizione ed esempi

Teoria dei jobs to be done, cos'è, a cosa serve, definizione ed esempi

La teoria dei jobs to be done è un modello di osservazione e analisi delle motivazioni che guidano il comportamento di acquisto di ogni cliente. Partendo dal presupposto che ognuno di noi tende a migliorare la propria condizione, la teoria si concentra sulle motivazioni che guidano le persone verso uno status quo migliorato rispetto a quello attuale.

Scoprire queste motivazioni aiuta le aziende a focalizzarsi su quello che per i propri clienti conta veramente: fare un progresso, realizzare quel "self betterment" di cui parla la teoria dei JTBD.

Se ogni innovazione, soprattutto nel business, può sembrare un'impresa a rischio, la teoria dei JTBD, a supporto di altre metodologie come il design thinking, ci aiuta a progettare prodotti o servizi che i clienti vorranno effettivamente acquistare. Secondo questa teoria, infatti, le persone non comprano prodotti ma li "assumono" per svolgere lavori specifici, come risolvere un problema o soddisfare un particolare  desiderio.

In quest'ottica, i veri concorrenti di un'azienda non sono necessariamente quelli che offrono prodotti o servizi simili ma tutto ciò che i clienti potrebbero "assumere" per svolgere lo stesso "job". La teoria dei JTBD, quindi, amplia la nostra visione della concorrenza e ci aiuta a comprendere meglio le reali esigenze dei nostri clienti. 

I JTBD ci spingono ad approfondire non tanto le caratteristiche specifiche del nostro prodotto, ma il "job" che questo può svolgere per il cliente. Questo approccio cliente-centrico può portare a innovazioni che ci permettono di servire i nostri clienti in modi nuovi e più efficaci.

Per applicare la teoria JTBD al business, dobbiamo iniziare a porre domande più profonde ai nostri clienti. Dobbiamo cercare di capire le circostanze in cui i nostri clienti vivono e utilizzano i prodotti simili al nostro, i problemi che stanno cercando di risolvere e come possiamo aiutarli a farlo in modo più efficace. 

Vediamo come.

Indice dei contenuti

  1. Teoria dei jobs to be done: definizione
  2. Il valore percepito di un prodotto
  3. I 4 principi dei jobs to be done e un esempio
  4. Jobs to Be Done e Design Thinking
  5. Jobs to be done, consumer insight e approccio data driven
  6. Il vero valore dei Jobs to be Done: Intuizione vs. Progettazione
  7. Jobs to be done: quando la vita non è sempre data-driven
  8. JTBD e il comportamento di acquisto
  9. Un modello per spiegare il comportamento d'acquisto
  10. Le 4 forze del progresso
  11. Jobs to be Done: utilizzare i consumer insight in comunicazione
  12. Come cambia il concetto di competizione
  13. I principi per definire meglio la competizione

Teoria dei jobs to be done: definizione

Il termine "Jobs to be done" (JTBD) si riferisce a una teoria, a un quadro di riferimento e a una prospettiva aziendale sul perché i clienti acquistano i prodotti. Secondo la teoria dei lavori da fare, le persone non comprano prodotti, ma li "assumono" per svolgere i loro "lavori", cioè per raggiungere i loro obiettivi.

Il concetto di "lavoro" è difficile da tradurre in italiano; è un mix di obiettivi, intuizione e tendenza a migliorare la propria condizione attuale, un miglioramento a cui noi esseri umani tendiamo per natura.

La teoria dei jobs to be done è un quadro di riferimento per comprendere meglio il comportamento dei clienti. Mentre il marketing convenzionale si concentra sui dati demografici del mercato o sugli attributi del prodotto, la teoria dei "lavori da fare" va oltre e affronta le dimensioni funzionali, sociali ed emotive delle scelte legate al comportamento di acquisto. 

Secondo la JTBD, le persone non comprerebbero semplicemente prodotti o servizi, ma li introdurrebbero nella loro vita per fare un progresso di qualche tipo. Questo progresso che stanno cercando di raggiungere è il loro "job" che deve essere reso "done", cioè raggiunto, conquistato.

In sintesi, la JTBD è un modo di pensare allo sviluppo e all'innovazione dei prodotti dalla prospettiva del cliente e delle sue esigenze di fondo, che aiuta le aziende a comprendere i bisogni dei clienti e a rispondere in modo più efficace con i loro prodotti o servizi.

Nella teoria dei Jobs to be Done il concetto di "self betterment" è quindi centrale e su questo quindi è bene spendere due parole in più.

Senza scadere nel filosofico, che non è il mio campo, la continua pulsione al miglioramento delle proprie condizioni è nel nostro DNA: scienze, medicina, tecnologia, sport, moda, arte o la filosofia stessa. Tutto è costantemente in evoluzione per portarci un vantaggio di qualsiasi tipo: emotivo, intellettuale, fisico, relazionale. Non c'è una regola sul tipo di miglioramento a cui l'essere umano tende, il punto è che ognuno di noi punta sempre in quella direzione.

Considerando la crescita personale come una pulsione insita nell'essere umano, dobbiamo tenere presente che questa non sia necessariamente sempre presente a livello cosciente. Spesso un consumatore, non necessariamente uno qualsiasi ma sto parlando di me e di te, non sa ancora che può migliorare la propria condizione ma questo non significa che non voglia farlo.

No customer ever asked Amazon to create the Prime membership program, but it sure turns out they wanted it - Jeff Bezos

Quello di Amazon è solo un esempio, ma efficace. Io ci ho messo un po' a decidermi a diventare un membro Amazon Prime, non è che ne sentissi il bisogno, ma ora non tornerei più indietro.

La teoria dei Jobs to be Done non è nuova ma stranamente in Italia è ancora troppo poco conosciuta. Forse non è poi così strano, visto che in comunicazione non siamo certo un popolo di pionieri. Personalmente, al di là dei sensazionalismi che alcuni cercano di dimostrare, la trovo una teoria molto interessante perché si fonda un semplice assioma: la costante ricerca di miglioramento che contraddistingue noi esseri umani.

Proprio per questo motivo è una teoria che piace tanto a chi fa Design Thinking: perché i JTBD diventano uno strumento che tende a diventare la luce che guida il cambiamento, la bussola che indica la direzione verso l'innovazione di prodotto o di processo.

Il valore percepito di un prodotto

Tenendo questa storia del continuo miglioramento ben in mente, i JTBD parlano direttamente a designer e marketer affermando che bisogna trovare un nuovo modo di interpretare quello che i loro clienti percepiscono essere "di valore".

Il valore di un prodotto non deve essere necessariamente legato alle sue caratteristiche ma piuttosto a quello che può fare per i clienti per cui è stato creato. Non a ciò che è, ma a ciò che fa per loro.

Come nel Design Thinking, in cui si incastrano perfettamente, anche i Jobs to be Done sono cliente-centrici: stop al design prodotti con caratteristiche sempre nuove e migliorate e iniziamo a creare prodotti che siano più integrati nella customer experience, che diano valore alla vita dei clienti perché consentono loro di raggiungere un nuovo status migliorato (di avere un "job" finalmente "done").

Dopo l'adozione della teoria dei JTBD, trovare che i consumatori utilizzano un prodotto o un servizio per uno scopo diverso da quello ipotizzato inizialmente dal produttore è una situazione piuttosto frequente.

I 4 principi dei Jobs to be Done e un esempio 

Riguardo a questo argomento, Alan Klement, di cui riparleremo più avanti, porta l'esempio della barretta "Snickers" come forse il primo caso conclamato di prodotto che svolge un "job" per i suoi utilizzatori.

Gli Snickers erano vissuti da tutti, sin dagli anni 30, più come vero cibo che come snack (vai a capire gli americani). Nel 1979 viene introdotta in comunicazione la tagline "packed with peanuts" (una cosa del tipo "confezionato con arachidi") allontanando di fatto l'idea del vero cibo e riportando i consumatori a considerare la barretta per come l'azienda Mars (il produttore) l'aveva sempre immaginata: come uno "snack". Questo semplice esempio ci porta ad affrontare 4 punti, 4 pilastri fondamentali della teoria dei Jobs to be Done:

  1. C'è spesso distanza tra quello che il produttore pensa sia il valore del proprio prodotto e le vere ragioni per cui i consumatori lo usano
  2. Il marketing e la comunicazione dovrebbero concentrarsi su quello che il prodotto fa e non su quello che il prodotto è (sul job, non sulle caratteristiche tecniche)
  3. Il design dei prodotti deve essere guidato dai criteri di scelta dei consumatori, non tanto dalle funzionalità che l'azienda vuole che abbia
  4. Il concetto di competizione non può essere relegato solo a prodotti con caratteristiche simili ma a tutto ciò che può tendenzialmente sostituire il prodotto (nel caso dello Snickers non solo altre barrette ma ad esempio un panino, frutta secca, la dieta)

Jobs to Be Done e Design Thinking

Abbiamo visto come il Design Thinking crea innovazione. Ma come, adesso anche i JTBD guidano l'innovazione di prodotto? In realtà i Jobs to be Done partono proprio dal presupposto che ognuno di noi è sempre alla ricerca di un miglioramento della propria condizione per cui il concetto di innovazione è effettivamente uno dei pilastri della teoria. Inoltre per quanto mi riguarda i JTBD sono una naturale estensione del Design Thinking per cui è normale che entrambe queste teorie/metodologie abbiano fondamentalmente lo stesso obiettivo.

In che modo JTBD e Design Thinking si integrano l'un l'altro? I punti di contatto sono tanti in effetti, partendo dal fatto che la teoria dei JTBD non solo è citata da praticamente tutti gli autori di Design Thinking ma è anche parte integrante di alcuni suoi stumenti come la Customer Journey Map o il Value Proposition Canvas.

Ma cosa lega veramente queste due teorie? Direi, almeno, che entrambe:

  1. Sono focalizzate sulla Customer Experience
  2. Spostano l'accento da un approccio product-driven ad uno customer-centric
  3. Prevedono fasi di analisi, prototipazione e test per validare le ipotesi prima di andare in produzione
  4. Considerano un potenziale cliente come una persona nella sua complessità e non come un numero: Luca con i suoi dubbi, desideri, aspettative, emozioni e non Luca, maschio, 35-45 anni, laureato e imprenditore.

Prendiamo l'esempio di Luca, possessore di un cellulare: quali delle seguenti affermazioni spiega il fatto che Luca abbia uno smartphone in tasca?

  1. Ha bisogno di rimanere connesso quando è fuori ufficio
  2. Luca ha 47 anni, vive a Milano, guida una Mercedes, è sportivo, suona il pianoforte e gioca a Golf

Ok, l'esempio è chiaro no? Se potessimo spiegare tutto attraverso le carattersitiche socio-psico-demografiche non potremmo spiegare perché Luca ha un cellulare, suo padre ha lo stesso cellulare, suo nipote di 14 anni ha anche lui lo stesso cellulare. Evidentemente è un unico strumento che risolve diversi problemi a tutti nello stesso modo, problemi che vanno al di là dell'età, del genere, del livello culturale e, l'Italia ne è un esempio perfetto, della capacità di spesa.

In OFG Advertising utilizziamo gli spunti della teoria dei Jobs to be Done principalmente per aiutare le aziende che lavorano con noi a comprendere meglio cosa il mondo esterno pensa dei loro prodotti o servizi. Non solo.

Sapere che è possibile, anche se difficile, astrarre delle regole che in un qualche modo guidino il comportamento delle buyer personas aiuta non solo a costruire dei prodotti che rispondano alle loro esigenze, ma anche a scrivere messaggi che siano efficaci. 

Conoscere i clienti significa anche intercettare il search intent e ipotizzare le parole chiave utilizzate su Google in fase di ricerca delle informazioni: conoscere il search intent significa avere un vantaggio in termini SEO e far crescere di conseguenza un traffico qualificato ai nostri asset digitali.

La parola "qualificato", qui, è quella che fa la differenza tra un'audience generica e un pubblico composto per la maggior parte da potenziali clienti.

Ecco perché OFG Advertising ha costruito un percorso, che chiamiamo Discovery, all'interno del quale è previsto un importante capitolo dedicato all'approfondimento dei consumatori finali. Da qualche anno ormai non esiste progetto che non inizi con la Discovery. Quando si dice che la conoscenza è potere.

Per chiudere, ho letto qualche libro sui Jobs to be Done, trovo che il migliore sia quello di Alan Klement. Qui potete scaricare gratuitamente il suo libro "When coffee and kale compete".

Jobs to be done, consumer insight e approccio data driven

Abbiamo già visto come i Jobs to be Done siano un potente strumento strettamente legato al Design Thinking. Vedremo ora che la teoria dei JTBD non è solo questo ma anche un modo per attivare il pensiero laterale per legare in qualche modo i dati che raccogliamo con gli insight dei consumatori, che spesso in comunicazione sono ignorati ma rimangono un asset strategico fondamentale.

Non è mia abitudine citare frasi di altri, farò un'eccezione per questa volta perché ci sono un po' di luoghi comuni che vanno affrontati: attenzione però. Non passi il concetto che i Jobs to be Done risolvano il problema della fame nel mondo: JTBD è una teoria interessante e per l'agenzia è uno strumento come un altro che ci aiuta a compiere un percorso di Discovery sui clienti dei nostri clienti.

Il vero valore dei Jobs to be Done: Intuizione vs. Progettazione

Come tanti altri strumenti (come lo SCRUM o il Design Thinking stesso) di questo tipo non basta dire "ok, me li studio e li metto in pratica" perché non è una cosa così immediata. Ancora una volta si tratta di stabilire una cultura aziendale velocemente pronta ad accettare il cambiamento e centrata sul processo di innovazione sostenibile: un atteggiamento, un mindset orientato alla crescita che deriva da solide basi culturali e organizzative.

Nota bene che qui la parola "sostenibile" non ha nulla a che fare con l'aspetto legato alla cultura ambientalista ma in questo caso deve essere presa proprio per il suo significato: una crescita che può essere sostenuta dall'azienda, un processo di innovazione controllato che non metta a rischio il business appesantendo cassa e risorse. Ok, belle parole. Ma come si fa? Come posso innovare senza investire?

Ecco, non credo che sia questo il punto. Ovvio che per innovare bisogna produrre e per produrre bisogna investire. C'è però un investire inconsapevole, dettato da idee dell'ultimo secondo e trend non confermati, e un investire basato progetto di crescita controllato, su insight e idee che sono il frutto di diverse esperienze, di tante sperimentazioni, prototipazioni e test.

Spero di riuscire a far passare la differenza tra mettere in produzione qualcosa creato dall'intuizione, che per quanto geniale può come non può portare al successo, e fare un progetto innovativo che sia in qualche modo confortato da ricerche e analisi.

Ho già detto perché i JTBD sono una questione di mindset? Non veramente, vorrei essere più chiaro. Ascoltare i propri clienti, intervistandoli, non è una cosa che di per sé richieda uno sforzo particolare. Prendere i risultati delle interviste, organizzarli e trarne degli insight è già qualcosa che richiede un'esperienza maggiore ma nulla che non possa essere fatto da qualsiasi azienda (anche perché solitamente è un lavoro che spetta a consulenti esterni).

Prendere quei consumer insight e portarli in produzione, invece, è un altro film. Ascoltare veramente i clienti non significa solo intervistarli, ma prendere gli insight che loro ci passano e portarli sul piano reale. Significa coinvolgere designer, progettatori, marketing, vendite, reparto produttivo, distribuzione, reseller e non so chi altro ho dimenticato che entra in filiera.

Significa quindi pensare, progettare, prototipare e testare per innumerevoli volte finché il prodotto non è coerente con le aspettative dei clienti. E farlo in tempi ragionevoli, con una flessibilità che non è caratteristica di tutti.

Non è tanto la teoria, quanto la pratica che richiama una questione culturale: ci devono credere tutti e tutti devono essere pronti a mettere in discussione e riprogettare quanto fatto fino a poco prima. E poi deve andare in produzione.

Jobs to be done: quando la vita non è sempre data-driven

Fino ad ora abbiamo parlato dei consumer insight e non voglio che questo articolo diventi un manifesto contro la lettura e l'interpretazione dei dati.

Gli approcci data-driven, che noi stessi in OFG utilizziamo per alcune tipologie di progetti, vanno benissimo e sono sani. Come quando si mangia la cioccolata, però, non bisogna esagerare o, meglio, bisogna saper comprendere quando è il caso di iniziare a mangiare anche altro: capire, fior di metafora, quando utilizzare un approccio guidato dai dati e quando invece questo, preso di per sé, è troppo limitato.

In comunicazione, in particolare, non tutto può essere data-driven. Stiamo facendo UX design? I dati ci aiutano. Stiamo pensando ad una campagna creativa? A nuove funzionalità di un prodotto? I dati sono utili ma forse è qualcosa d'altro che deve guidare. Qualcosa d'altro, certo. Ma cosa?

Siamo arrivati al momento delle citazioni.

If you can't measure it, you can't improve it.

Booom. Ecco la bomba. Quante volte l'abbiamo sentita? Un gran bel manifesto. Semplice, conciso, facile da ricordare. E tra l'altro mi trova d'accordo, misurare è il primo passo per poter migliorare o se non altro per avere un benchmark da cui partire. Rilancio quindi con un'altra citazione (oggi va così):

Not everything that could be counted counts, and not everything that counts can be counted - William Bruce Cameron

Quindi possiamo immaginare veramente che dietro al dato nudo e crudo, dietro ad un approccio basato unicamente sui dati, esista qualcos'altro di più nascosto, qualcosa che spieghi i dati che stiamo raccogliendo e che in qualche modo ne definisca il senso? Credo di sì. Credo che il mistero della maggior parte dei nostri comportamenti nasconda intenzioni non visibili che pur esistono e che non possono essere ignorate. O spiegate solamente dai dati. Infatti:

No business plan survives first contact with a customer - Steve Blank

Ecco. Consideriamo i Jobs to be Done uno strumento per mettere un po' di luce in un mondo complesso come quello del comportamento umano. Non capiremo tutto ma anche se capiamo poco, è sempre poco più di quanto sapessimo prima.

Chiudo con l'ultima citazione che credo riassuma tutto quanto detto fino ad ora.

The man who grasps principles can successfully select his own methods. The man who tries methods, ignoring principles, is sure to have trouble - Harrington Emerson

Insomma, dati, intuizioni, insight, trend. Va tutto bene se si usa la testa per dare loro il giusto peso.

JTBD e il comportamento di acquisto

Tempo fa, ero ad un corso, mi presentano una famosa citazione del professor Theodore Levitt che, giustamente, faceva notare che:

People don't want to buy a quarter-inch drill. They want a quarter-inch hole!

Cavolo. Genialata.

Con una certa eleganza stilistica e un discreto effetto wow, il professore ti sta dicendo che dietro ad ogni comportamento d'acquisto si nasconde un preciso obiettivo. Nell'esempio di Levitt, il nostro consumatore ha evidentemente l'obiettivo di appendere un quadro o una mensola: il trapano è solo un mezzo per raggiungere il lo scopo. 

Parlando di Jobs to be Done e competizione, abbiamo visto come le persone tendano ad attribuire maggiore o minore importanza ad un prodotto in base ai loro obiettivi (ai loro job): se mai inventassero una cornice che si appende da sola, il trapano diventerebbe un oggetto inanimato privo di ogni utilità. In quest'ottica, qualsiasi sia il modo con cui appendo il mio nuovo quadro (trapano o cornice che si appende da sola), il punto è il risultato finale e non il mezzo.

Un attimo. Se non voglio un trapano e posso evitare un buco nel muro, allora cosa sto comprando? Direi un salotto più bello, una casa più confortevole, la soddisfazione di far vedere agli amici che ho comprato un Picasso originale. Insomma qualsiasi sia il mio obiettivo (che sia funzionale, sociale o emotivo) non è sicuramente un buco nel muro ma va decisamente oltre: questo è perfettamente in linea con il concetto che sta alla base dei Jobs to be Done: la continua ricerca di miglioramento che contraddistingue il genere umano. Il self-betterment.

Quindi. Ad un certo punto della mia vita decido che il mio salotto deve essere più bello e so che per farlo posso comprare un trapano o prendere una super cornice auto-appendente. Cosa mi spinge verso l'una o l'altra soluzione? Sicuramente gli strumenti di Design Thinking mi possono aiutare a capire, ma un modello sarebbe meglio. 

Jobs to be Done: un modello per spiegare il comportamento d'acquisto

Premessa. Il comportamento umano è ancora più complesso di quello che andremo a delineare tra poche righe ma come diceva lo statistico George Box

All models are wrong, but some are useful.

Per cui, partendo da questo presupposto incontrovertibile, vediamo come possiamo in qualche modo schematizzare le pulsioni che guidano la motivazione di ognuno di noi.

Questo modello applicato, aiuterà almeno a:

  1. capire le motivazioni o le frizioni che incontrano i nostri clienti nel loro customer journey
  2. capire perché i clienti sono, o non sono, attratti dai nostri prodotti
  3. creare messaggi di comunicazione rilevanti per le buyer personas (quindi più clienti e più fatturato)

Le 4 forze del progresso

Altra premessa. Qui "progresso" è inteso come miglioramento della propria condizione (il famoso self-betterment di Alan Klement che è il motore intrinseco della teoria dei Jobs to be Done).

Le 4 forze del progresso sono pulsioni emozionali che generano e modellano la decisione di acquisto in ognuno di noi. Fondamentalmente si tratta di 2 gruppi di forze che lavorano l'uno contro l'altro per avvicinare o allontare ognuno di noi dall'acquisto di un prodotto.

Come schematizza l'immagine qui sotto (che trovate nell'articolo sulle 4 forze di Alan Klement), il primo gruppo è push + pull (le forze che spingono verso l'acquisto, cioè il cambiamento dello status quo) e il secondo da anxiety + inerzia (le forze che spingono verso il non-acquisto, cioè verso il mantenimento della situazione attuale).

Jobs to be Done - le 4 forze che determinano la motivazione del comportamento di acquisto

Ora, mi preme concentrarmi su un dettaglio. Per "decisione di acquisto", ovviamente, non intendo solo ed esclusivamente quel momento in cui siamo davanti allo scaffale e decidiamo di mettere la pasta nel carrello. Qui stiamo parlando dell'intero Customer Journey: un unico lungo percorso durante il quale maturiamo la scelta di acquisto.

Consideriamo quindi un periodo più o meno lungo all'interno del quale ognuno di noi che ha delle esigenze o degli obiettivi particolari inizia a prendere informazioni, poi chiede in giro, poi inizia ad informarsi sulle alternative, poi magari fa una prova del prodotto, poi ne compra uno, poi chiama il servizio assistenza e magari lo consiglia ad un amico.

Insomma, il Customer Journey. Ecco. Le 4 forze descritte sopra possono essere applicate ad ogni fase del percorso e avvicineranno o allontaneranno il nostro consumatore dall'acquisto a seconda dei vantaggi o delle frizioni che percepirà sulla sua strada.

Entriamo nel dettaglio delle 4 forze. La letteratura in realtà non è chiarissima a riguardo, almeno non per me, per cui cercherò di darvi la mia interpretazione.

Le forze che portano alla decisione di acquisto

Siamo nel gruppo dei "buoni": qui, come abbiamo visto, ci sono le 2 forze che danno la motivazione all'acquisto. Se consideriamo il prodotto come il punto di arrivo su una mappa stradale, posso avere dei fattori che mi spingono verso di lui o fattori che mi tirano a lui.

Push. Nessun cambiamento avviene per caso. Come abbiamo visto esiste sempre un obiettivo più o meno nascosto che sta dietro ogni comportamento (d'acquisto).

La forza "push" è creata quindi da fattori, interni o esterni, che in qualche modo mi fanno sentire il bisogno di cambiare: la nascita di un figlio ad esempio cambia gli equilibri familiari e richiede azioni di compensazione. Così come la frustrazione che provo quando tutti gli amici parlano delle serie TV su Netflix e io non ho ancora fatto l'abbonamento. Come dicevo, fattori esterni ed interni.

Pull. Per comprendere questo tipo di forza dobbiamo considerare il prodotto come una calamita che ci attrae verso di sé: non si tratta più di fattori esterni o interni legati alla nostra condizione ma di come la soluzione che stiamo scegliendo può renderci la vita migliore. Se la forza "push" quindi nasce direttamente da noi, la forza "pull" nasce dal prodotto e da come questo può portarci al self-betterment.

Quindi la forza "pull" è quella che ci tira verso un miglioramento della nostra situazione attuale. Per restare su Netflix, non solo ho un contesto sociale che mi spinge a voler provare la piattaforma in modo tale da avere argomenti di conversazione con tutti ma ho anche accesso al leader mondiale di produzione e distribuzione di serie TV. Se ci mettiamo che costa al minimo 8 euro al mese, posso anche pensare di disdire SKY e risparmiare sul budget familiare. Ecco, in questo caso le caratteristiche intrinseche della piattaforma hanno un effetto calamita su un amante delle serie TV come me. Come si diceva, "pull".

Una cosa molto importante da sottolineare è che la decisione di acquisto nasce sempre da una combinazione di forze push e pull: difficilmente una chiacchierata con gli amici mi può convincere a fare Netflix se le serie TV mi annoiano a morte.

Le forze che bloccano la decisione d'acquisto

Qui siamo nel gruppo dei "cattivi": che poi, cattivi, è tutto da vedere. Tendenzialmente qui ci sono tutte le motivazioni che tendono alla stasi completa, ma non è veramente detto che siano loro i cattivi della storia. Conoscere il tuo nemico ti aiuta comunque a vincere la guerra e, soprattutto, conoscere il motivo di una non-scelta è altrettanto importante. Dovremmo considerare queste forze che spingono verso il non-acquisto esattamente come un competitor: se vincono loro, non abbiamo venduto nulla.

Anxiety. Stiamo parlando di una vera forza che rema contro e può essere categorizzata in due forme: ansia da decisione e ansia da utilizzo. La prima si presenta solo quando non si ha mai provato un prodotto simile a quello che si vuole comprare e fondamentalmente non c'è la certezza che assolva alla sua funzione (che renda il mio "job" effettivamente "done"). Questa forza è uno dei motivi per cui i siti di e-commerce devono puntare sul contenuto legato ai prodotti: descrizioni, foto, video, recensioni, schede tecniche, trasporto. Tutto quello che serve per ridurre l'ansia da decisione.

Ansia da utilizzo invece si presenta dopo che il primo tipo di ansia è scomparso. Ho deciso di prendere il prodotto ma in qualche modo qualcosa nel suo utilizzo mi crea fastidio e mi blocca: in questo periodo mi viene in mente il livello di stress generato da una nuova applicazione per fare una video call. Se è la prima volta che la utilizziamo (o che la utilizza il nostro interlocutore) c'è sempre una certa dose di incertezza sulla buona riuscita della call.

Inertia. Pensiamo all'inerzia esattamente per quello che è: una forza che tende a far sì che le cose restino inalterate. Potremmo altrimenti definirla "abitudine". Come per l'ansia, abbiamo 2 versione di abitudine: decisionale e di utilizzo.

La prima si presenta come blocco dell'attività decisionale (prima dell'uso del prodotto) solo perché si è abituati a gestire le cose in modo diverso. Un esempio che vi posso citare, vissuto personalmente qualche anno fa, è stata la scelta di abbandonare Quark X-Press in favore di Adobe In-design. Per dovere di cronaca, X-Press è stato per circa 20/25 anni il più importante software di impaginazione grafica, poi ad un certo punto è uscito In-design che sulla carta non aveva paragoni: era tutto più facile, più integrato con altri software, più veloce ma l'abitudine ci ha bloccato per diversi mesi. Ma poi come faccio a recuperare i file vecchi? Funzionerà davvero? La formazione a tutti i grafici? Fortunatamente ad un certo punto abbiamo deciso di cambiare, ormai saranno 15 anni.

Non so come descriverlo, avendolo vissuto: è come se ti creassi delle scuse per evitare di prendere la decisione. Ecco, è quello.

La seconda forma di abitudine è quella di utilizzo e si riferisce al fatto che se la motivazione non è sufficientemente alta o non ci sono cause esterne (push o pull) che ci obbligano a cambiare, tendiamo a reiterare quel comportamento ormai quasi automatico, dettato dall'abitudine: è più economico in termini di risorse mentali e fisiche. Semplicemente, è più facile. Per cui, così, se sottoscrivo un servizio in abbonamento ma sono abituato ad altro tendenzialmente potrei non rinnovare perché dopo un po' potrei rendermi conto di non utilizzarlo più (a me è successo con l'abbonamento digitale al Corriere della Sera mentre sono abituato a leggermi alla mattina la rassegna stampa di Google News).

Insomma, i Jobs to be Done non sono un argomento facile né da spiegare né da mettere in pratica ma a noi hanno dato diverse soddisfazioni. 

Jobs to be Done: utilizzare i consumer insight in comunicazione

Tornando all'applicazione pratica dei JTBD nel nostro lavoro, il punto è proprio scoprire quali sono gli insight che si nascondono dietro i comportamenti dei nostri clienti e utilizzarli come leve in comunicazione.

Questa in realtà non è una novità: le agenzie di pubblicità lo avevano capito già negli anni '50 in cui le prime campagne di comunicazione relative al make-up erano improntate non tanto sul vendere mascara o rossetto quanto sul vendere la trasformazione che questi consentono. Vendere un sogno, una speranza, non un prodotto.

In the factory we create cosmetics. In the drugstore, we sell hope - Charles Revson, fondatore di Revlon

Oggi questo discorso ci sembra normale. Oggi tutto il mondo Fashion (e non solo) ha uno stile di comunicazione tendenzialmente centrato sul concetto di self-betterment (aspirazione o emulazione, chiamalo come vuoi): puoi essere bello e fico come me.

Quello che tutti noi comunicatori, non parlo solo di agenzie ma anche di aziende, dovremmo fare è iniziare a separare cosa comprano i consumatori dal perché lo stanno comprando: una volta si parlava di USP (Unique Selling Proposition, anche se non ho mai capito perché dovrebbe essere per forza una sola - ndr), oggi possiamo dire che trovare la giusta Value Proposition è fondamentale per avere una comunicazione chiara e orientata all'obiettivo.

E guarda caso la ricerca della Value Proposition parte proprio dall'analisi delle Buyer Personas mettendo in relazione i loro JTBD con il prodotto o il servizio che vogliamo vendere.

Come cambia il concetto di competizione

Il self betterment quindi è una condizione che accompagna tutti noi, tanto che deve diventare una delle leve principali del processo di design del prodotto (che ricordo, può e deve poter essere applicato a tutta la customer experience): considerare come un determinato prodotto può rendere migliore la vita di ognuno di noi deve portare alla creazione di valore e innovazione.

Ecco perché la teoria dei Jobs to be Done è così vicina al Design Thinking: entrambi sono strumenti al servizio dell'innovazione di prodotto. Vediamo ora come questo impatta direttamente sul concetto di competizione.

Considera il mercato relativo al tuo prodotto come un gioco a somma zero: esiste competizione solo quando esiste un budget che ognuno di noi può dedicare a un prodotto o a un'attività. Questo è abbastanza intuitivo: se non ho esigenze particolari, cerco di arrangiarmi con quello che ho, di spendere il meno possibile. È il momento dell'esempio stupido. Se per me l'auto non è uno status symbol ma solo un mezzo che mi deve portare dal punto A al punto B, mi tengo la mia R5 turbo con gli interni in radica dell'84.

In questo caso il mio "job" che deve essere "done" non è quello di rimorchiare ragazze con il macchinone ma semplicemente spostarmi da casa all'ufficio, cosa che posso fare tra l'altro con diverse soluzioni.

E qui torna il punto del budget disponibile. Se mi si rompe la R5, che budget sono disposto a pagare per avere il mio job soddisfatto? Questo ipotetico budget ci aiuta a definire quello che potremmo chiamare il "costo dell'innovazione", cioè quanto un ipotetico consumatore come me è disposto a pagare per un nuovo prodotto che soddisfi il suo obiettivo (il suo job). In questo scenario, la mia ipotetica R5 (che per gli ultimi 30 anni ha avuto un budget pari al costo di benzina e assicurazione) non va in competizione col Porsche, forse neanche con una macchina pari livello (trovala una macchina del livello della R5) ma potenzialmente con bicicletta, mezzi pubblici, car sharing o monopattino elettrico.

Il punto è che potenzialmente ogni attività che soddisfi il mio "job" e che possa sostituire il prodotto che ho usato fino a questo momento, ad un costo percepito come accettabile, può essere considerata un competitor.

Visto dalla parte dell'azienda e in quest'ottica, il tema della competizione è fondamentale perché definisce il perimetro di funzionalità di base e di costi che dovrebbe avere un nuovo prodotto che voglio lanciare sul mercato che possa sostituire la mia compianta Renault5: se la mia buyer persona non percepisce il mio nuovo prodotto come un vero vantaggio, continuerà con le sue abitudini precedenti, che costano meno. Come dicevo, non è un dettaglio che si può ignorare in fase di design.

I principi per definire meglio la competizione

La teoria dei JTBD, aiutandoci a trovare i nostri veri competitor, ci aiuta anche a capire se stiamo parlando alle persone giuste, quindi a ridefinire meglio le nostre Buyer Personas. A valle di questo ci aiuta soprattutto a capire dove sta il vero valore del mio prodotto per loro e questo influisce direttamente sulle leve di marketing che dovrò utilizzare.

Una precisazione. Qui sopra ho scritto "per loro" in corsivo perché vorrei sottolineare ancora una volta che un prodotto difficilmente ha valore per tutti: l'obiettivo (e la difficoltà) sta proprio nel creare il giusto prodotto che abbia valore per quella specifica Persona, al giusto prezzo e che in qualche modo la elevi ad uno status "migliorativo" rispetto alla sua condizione attuale. In altre parole, che lo faccia stare meglio dei prodotti della concorrenza.

In che modo? Proviamo a definire il concetto di competizione attraverso dei principi:

  1. Non possiamo restringere il campo della competizione solo ed esclusivamente a prodotti con funzionalità simili alle nostre. Non cadiamo nella facile semplificazione che tutto ciò che ha caratteristiche simili è necessariamente un competitor: PC e Server ad esempio sono simili ma non sono in competizione diretta (chi si compra un server da tenere a casa per lavorare in word e leggere la posta?). Allo stesso modo invece una merendina studiata apposta per i bambini potrebbe competere con un frutto o con la torta fatta a mano dalla nonna. Le implicazioni legate al posizionamento e alla value proposition di questa ipotetica merendina sono evidenti ed è quello che vediamo tutti i giorni in televisione: dalle merendine fatte a mano nel mulino all'accento sugli ingredienti naturali.
  2. Non possiamo studiare la relazione prodotto-consumatore-competizione da lontano. Ecco perché i JTBD necessitano un costante dialogo di approfondimento con i clienti, paradossalmente anche con i mancati clienti (quelli che hanno optato per un'altra soluzione): le spiegazioni di una non-scelta sono forse anche più interessanti.
  3. Troviamo conferma della competizione tra 2 prodotti solo quando troviamo clienti che sono passati dall'uno all'altro. PC e tablet sono competitor solo se troviamo qualcuno che ha sostituito tutte le funzioni del suo PC con un tablet. Il resto è pura congettura.
  4. Ci sono delle opzioni a costo zero che possono sostituire il tuo prodotto? Non tutti i job richiedono di essere risolti con un prodotto che le tue buyer personas comprano. Ad esempio a NY sono in pochi a possedere una lavatrice e la maggior parte delle persone tende ad andare a lavare le cose al lavaggio a gettone. Capiamo bene che se volessi lanciare una nuova lavatrice in questo contesto deve essere una super-lavatrice che non riesco neanche ad immaginare cosa possa fare per convincere la gente a cambiare un'abitudine così diffusa e radicata.
  5. Scopri qual è il "costo dell'innovazione", il budget che la tua Buyer Persona ha a disposizione per quel job in particolare. Cerca quindi quanto spende attualmente per avere il suo job done e questo ti darà indicazioni sia su quanto può essere la potenziale revenue su quel mercato sia quante risorse puoi dedicare a ricerca e sviluppo.

Ok, detta così sembra tutto facile. Qui stiamo parlando ovviamente di teoria, la pratica è una cosa diversa ma parte tutto da un'importante fase di studio e analisi che ormai direi è imprescindibile. Ad esempio, OFG ha studiato un percorso dedicato a questi delicati passaggi e, oggi, non c'è progetto che non parta dalla Discovery.

Luca Bizzarri