Nel marketing, soprattutto grazie al digitale, si è sviluppata una vera e propria dipendenza dai dati di settore. Report, benchmark, tendenze globali, trend predittivi, white paper: la quantità di informazioni a disposizione è virtualmente infinita. Eppure, nonostante questa abbondanza di dati, molte campagne faticano a creare un impatto reale sul pubblico.
I numeri ci dicono cosa succede ma raramente ci spiegano perché succede.
Ed è proprio in questo “perché” che si nasconde il valore più grande per chi fa marketing oggi: la comprensione culturale.
Non si tratta di ignorare gli insight quantitativi, né di rinunciare all’analisi. Il punto è che il marketing, per funzionare, ha bisogno di connessioni autentiche e i dati da soli non sono sufficienti a costruirle. Una campagna efficace non nasce da un grafico ma da una comprensione profonda delle persone a cui si rivolge: dei loro valori, dei simboli che riconoscono, delle narrazioni in cui si identificano. E questo tipo di conoscenza si trova molto raramente nei report di settore.
Il problema è che i dati di settore sono generalizzati per definizione. Hanno senso solo quando aggregano ma, aggregandosi, perdono specificità. Ma il comportamento umano è sempre locale, immerso in un contesto culturale preciso. Una statistica può dirti che il 60% dei consumatori italiani è attento alla sostenibilità ma non ti dirà come questa attenzione si manifesta nelle pratiche quotidiane, nei linguaggi, nei conflitti. Questo spazio tra la generalizzazione e la realtà vissuta è esattamente dove si gioca la partita del branding oggi.
Le aziende che sanno leggere la cultura sono quelle che riescono a generare significato. E il significato è l’unica cosa che può ancora fare la differenza in un mercato dove tutto è performance, tutto è ottimizzato, tutto è misurabile. Per questo oggi serve più che mai un approccio culturale al marketing. Un approccio che non sostituisce i dati ma li supera. Li completa. Li umanizza.
I limiti degli insight di settore nel marketing strategico
Quando si parla di insight di settore, ci si riferisce a quell’insieme di dati e analisi che aiutano i brand a comprendere il panorama competitivo in cui si muovono. Si studiano i competitor, si osservano le performance di mercato, si misurano i KPI più comuni, si cercano pattern nei comportamenti di acquisto. È un approccio che ha senso e funziona bene... fino a un certo punto.
Il primo limite evidente è che questi dati descrivono il passato. Anche quando parlano di trend futuri, lo fanno basandosi su proiezioni che partono da comportamenti già avvenuti. Ma il marketing, per definizione, deve anticipare, non seguire. Deve sapere leggere i segnali deboli, cogliere le trasformazioni culturali prima che diventino mainstream. E qui i dati di settore mostrano tutta la loro rigidità: sono lenti, reattivi e mai realmente predittivi.
In secondo luogo, gli insight di settore rischiano di omologare i brand. Se tutti guardano gli stessi report, studiano gli stessi benchmark e inseguono le stesse best practice, non puà che scaturirne un appiattimento dell’identità. Le campagne iniziano ad assomigliarsi, i messaggi diventano intercambiabili, le esperienze si standardizzano. E in un ecosistema mediatico saturo, l’unica via per emergere è la differenza, non la conformità.
Infine, c’è un tema più sottile ma altrettanto cruciale: la mancanza di contesto umano. I dati parlano di numeri, non di persone. Possono dire che un contenuto performa bene ma non spiegano perché riesce a toccare un nervo emotivo. Possono misurare le conversioni ma non raccontano il percorso narrativo che ha reso quell’acquisto significativo. Per capire tutto questo, serve uno sguardo più profondo, capace di leggere i codici simbolici che attraversano la nostra società.
L'importanza della comprensione culturale nel branding
Quando un brand riesce a leggere la cultura, riesce a costruire senso. E quando costruisce senso, non vende solo un prodotto: propone un’identità, una visione del mondo, un posizionamento simbolico. È questo che rende memorabile un brand: la sua capacità di inserirsi in una narrazione condivisa, di rappresentare qualcosa di più ampio, di rilevante, di vero.
La cultura non è un contenuto da produrre, è un contesto da interpretare. È fatta di linguaggi, valori, tensioni, riti collettivi. E soprattutto, è in costante movimento. Per questo l’analisi culturale richiede un tipo di sensibilità diversa: meno numerica, più qualitativa e meno orientata alla performance.
Più focalizzata sul significato.
Le marche che lavorano con i codici culturali sono quelle che riescono a creare campagne davvero rilevanti. Pensiamo, per esempio, alla capacità di certi brand di intercettare questioni sociali complesse – identità di genere, rappresentazione, sostenibilità, lavoro – senza scadere nel marketing del “buonismo”. Non si tratta di cavalcare un trend ma di prendere posizione. E prendere posizione richiede una comprensione autentica di ciò che sta accadendo nella società.
Per ottenere questo tipo di insight, le agenzie devono lavorare con strumenti più simili a quelli dell’antropologia che a quelli del performance marketing. Interviste in profondità, osservazione etnografica, analisi dei simboli, studio delle subculture: sono tutte pratiche che permettono di andare oltre il dato e arrivare al vissuto.
Come i brand possono integrare gli insight culturali nella strategia
Integrare la lettura culturale all’interno delle strategie di brand non significa rinunciare alla misurabilità ma ridefinirne il ruolo. Invece di partire dai numeri per costruire messaggi, si parte dalle persone. Dalle loro storie, dai contesti, dai linguaggi. I dati arrivano dopo, per verificare, per ottimizzare, per sostenere.
Il primo passo è adottare una metodologia di ascolto qualitativo, che metta al centro la narrazione, non solo la statistica. Questo può voler dire fare workshop con le community, analizzare i contenuti generati dagli utenti, collaborare con ricercatori sociali o esperti culturali. Serve cioè una rete di strumenti e competenze che vada oltre la classica ricerca di mercato.
Ecco che la teoria dei Jobs to be done torna immediatamente attuale.
In secondo luogo, è fondamentale che questa sensibilità culturale non resti confinata al team creativo ma informi tutta la catena strategica: dal marketing alla comunicazione, dal prodotto all’esperienza cliente. Quando una marca riesce a mantenere coerenza culturale su tutti i touchpoint, diventa molto più di un logo: diventa un linguaggio.
Infine, serve coraggio. Perché leggere la cultura significa anche scontrarsi con le sue contraddizioni. Significa prendere decisioni che non sempre ottimizzano il ROI immediato ma costruiscono valore nel lungo periodo. E questo tipo di valore è quello che trasforma un brand da semplice attore di mercato a soggetto rilevante nella società.
Il ruolo delle agenzie nella costruzione di insight culturali
Le agenzie che vogliono offrire un reale valore aggiunto ai propri clienti devono evolvere da semplici fornitori di creatività a partner culturali. Questo significa sviluppare una capacità di analisi che vada oltre il brief e oltre i target, per interrogare il contesto sociale in cui si muovono i brand. È un lavoro più complesso, più lento ma infinitamente più efficace.
OFG lavora in questa direzione. Non ci limitiamo a costruire campagne che funzionano: vogliamo costruire significati che durano. Per farlo, mettiamo insieme strategia, creatività e ascolto. Non ci basta sapere cosa funziona, ci interessa capire perché. Perché solo così possiamo costruire brand capaci di parlare davvero alle persone. Non come segmenti di pubblico ma come soggetti culturali.
La nostra esperienza ci ha insegnato che i dati servono ma non bastano. E che le storie migliori nascono sempre dove i numeri non arrivano.
Esempi di brand che usano insight culturali per costruire valore
Capire la cultura, leggerne i codici, interpretarne le tensioni: sono capacità sempre più centrali nel lavoro di chi costruisce un brand. Alcune aziende lo fanno con una consapevolezza precisa, altre ci arrivano per gradi. In ogni caso, ci sono esempi virtuosi che mostrano con forza come un approccio culturale possa tradursi in un posizionamento distintivo e in una relazione autentica con il pubblico.
Dove – Real Beauty
Dove è uno degli esempi più noti e studiati di brand che ha saputo costruire una narrazione culturale forte. Con la campagna Real Beauty, lanciata già nel 2004 e continuamente aggiornata, il marchio ha preso una posizione netta contro i canoni irrealistici di bellezza proposti dai media. Non ha semplicemente rappresentato “donne normali”, ma ha costruito un discorso sul valore dell’autenticità, della diversità corporea, dell’autostima femminile. Questo approccio ha trasformato Dove da marchio di prodotto a marchio di valori, creando un legame emotivo profondo con milioni di consumatrici.
Patagonia – Don’t Buy This Jacket
Il caso Patagonia è emblematico per chiunque voglia capire come una marca possa costruire valore culturale sfidando le logiche del mercato stesso. Con la campagna Don’t Buy This Jacket, l’azienda ha invitato le persone a non acquistare i suoi prodotti se non strettamente necessario, promuovendo riparazione, riciclo e consumo consapevole. Il messaggio non è stato percepito come contraddittorio, ma come coerente con una visione del mondo condivisa da una community di persone attente all’ambiente. Patagonia ha trasformato la sostenibilità in una postura culturale prima ancora che comunicativa.
NIKE – You can't stop us
Nike lavora da anni su un piano di comunicazione che trascende lo sport. La campagna You Can’t Stop Us, lanciata durante il periodo più critico della pandemia, è un manifesto di resilienza, inclusione e forza collettiva. L’uso del montaggio speculare, l’unione tra atleti di discipline, origini e generi diversi, la narrazione corale: tutto contribuisce a costruire una visione culturale dello sport come spazio aperto, accessibile, carico di significato sociale. Nike non parla solo di performance, ma di cambiamento. E lo fa leggendo con precisione le trasformazioni in atto nella società globale.
IKEA – Questa è casa
In Italia, IKEA ha dimostrato grande sensibilità nel raccontare il modo in cui il concetto di “casa” si sta trasformando. La campagna Questa è casa mette al centro esperienze abitative che si discostano dal modello tradizionale: convivenze tra amici, spazi condivisi, famiglie non nucleari. IKEA non propone semplicemente i suoi prodotti, ma li inserisce in storie che riflettono la vita reale. È un modo sottile ma potente di creare risonanza culturale: parlare alle persone non a partire dai mobili, ma dalle emozioni e dai contesti in cui vivono.
Gucci – ridefinizione dell’identità di marca
Negli ultimi anni, Gucci ha intrapreso un percorso di ridefinizione culturale radicale, soprattutto sotto la direzione creativa di Alessandro Michele. Il brand ha abbracciato estetiche ibride, contaminazioni tra epoche, generi e stili, rappresentando una sensibilità post-identitaria che ha saputo dialogare con le nuove generazioni. Gucci non si è limitata a “seguire la moda”: ha costruito un immaginario ricco, stratificato, con un linguaggio visivo che parla di libertà espressiva, nostalgia, dissonanza, fluidità. È un esempio avanzato di come la moda possa diventare veicolo di riflessione culturale, non solo di tendenza.