Guida completa al growth hacking: definizione, a cosa serve ed esempi

Guida completa al growth hacking: definizione, a cosa serve ed esempi

Growth hacking, o growth marketing, è un processo di miglioramento continuo delle performance, principalmente legate ai tuoi asset digitali. Si tratta di una tecnica che richiede una importante fase di analisi, generazione di ipotesi, organizzazione e pianificazione di tante piccole attività di miglioramento dei tuoi asset digitali per valutare e misurare quali hanno un impatto positivo sui KPI legati agli obiettivi che vuoi ragiungere.

Il Growth hacking richiede un team dedicato, parecchio impegno da parte di tutti e una grande responsabilizzazione alla causa dei membri del team. In altre parole, non tutte le aziende possono fare growth marketing: è richiesta una cultura aziendale molto focalizzata sui modelli lean e agile, terreno fertile ma non facile da trovare in molte aziende.

Indice della guida al growth hacking

  1. Growth hacking: cos'è, definizione e prerequisiti
  2. Perché il growth hacking è importante per la tua azienda
  3. Growth hacking e organizzazione aziendale
  4. Growth Hacking Marketing
  5. Il growth hacking in Italia
  6. Le agenzie di growth hacking
  7. Growth hacking e buyer personas
  8. Far crescere l'azienda con il growth hacking
  9. Growth hacking e digital marketing
  10. Il funnel dei Pirati, il modello AAARRR
  11. Growth hacking, funnel e customer journey
  12. Sviluppare il mindset per  il growth hacking
  13. Growth hacking e il  team interfuzionale 
  14. Creare un team di growth hacking
  15. Growth hacking e la sperimentazione
  16. Le 6 regole per impostare gli esperimenti
  17. Le fasi del processo di sperimentazione
    1. Discovery e Analisi dei dati
    2. Generazione di idee
    3. Assegnare priorità agli esperimenti
    4. Sperimentazione vera e propria
  18. Trovare la tua north star metric
  19. Come scegliere KPI misurabili ed efficaci
  20. Casi di successo di growth hacking

 

Growth hacking: cos'è, definizione e prerequisiti

Il growth hacking o growth marketing è un processo metodico, guidato da sequenze di rapidi esperimenti, votato al costante efficientamento degli asset aziendali (principalmente di marketing e vendita) con un unico obiettivo: la crescita misurabile delle revenues.

In due parole: tanti esperimenti, senza perderci troppo tempo, per capire cosa funziona e metterlo in pratica. Diciamo che è più una questione di come si affrontano le sfide piuttosto che degli strumenti che usiamo per superarle. Una questione di testa, non di muscoli. Questione di mindset, di cultura aziendale come dicevo.

Per capire meglio cos'è il growth hacking proviamo a procedere al contrario: cosa sicuramente non è il growth hacking?

  1. Non è una metodologia solo digitale, ma si può applicare a qualsiasi asset, diciamo, anche reale o fisico. Il design di un prodotto e delle sue funzionalità, ad esempio.
  2. Non è una questione di magia, ma di impegno costante e lavoro metodico. La botta di fortuna esiste, è più probabile però crescere per piccoli passi in avanti.
  3. Non è appannaggio di un Guru Illuminato che porta il suo sapere nella realtà aziendale. "One-man-band" non è un concetto che va con questa metodologia: si tratta piuttosto di un team inter-funzionale che lavora ascoltando, valutando e testando ogni idea in un ambiente non giudicante.
  4. Non è una metodologia fine a se stessa ma è un insieme di strumenti combinati tra loro guidati da un unico chiodo fisso: la crescita. Così Design Thinking, SCRUM, Jobs to be Done, tutti i canvas che vi vengono in mente (Value Proposition, Business Model e quant'altro): ogni cosa che possa portare valore viene utilizzata per creare delle ipotesi che poi vanno testate.
  5. Non è la soluzione a tutti i problemi, anzi necessita di lavoro extra. Il growth hacking deve essere utilizzato "sopra" altri strumenti: si applica al design, al sito, all'advertising. Si può testare? È misurabile? Allora si può fare.
  6. Non è una metodologia sexy. Fare growth hacking sembra figo. E lo è, se ti piace perdere la vista su fogli di Excel. Sì, perché tutto deve essere tracciato, misurato e valutato ed eventualmente fare da base per esperimenti futuri.

Insomma spiegare il growth hacking è abbastanza facile, metterlo in pratica veramente invece è una missione più complessa.

Quando un fenomeno diventa "di massa" (e per Internet parlare di "massa" è riduttivo) espone il fianco a studiosi e virtuosi delle performance che, giustificando la propria esistenza, fanno del proprio interesse prima un lavoro e poi una scienza.

Nascono in questo modo una serie di metodologie da collocare in una strategia di digital marketing coerente, che analizzano nel dettaglio ogni sito, ogni tipologia di utente e contenuto.

Collocano ogni metrica al posto giusto, in modo tale che acquisti un significato all'interno del nuovo contesto e diventi un indicatore per estrarre regole valide per tutti.

In questo contesto fa il suo ingresso in Italia il Growth Hacking che, per citare Sean Ellis (il suo creatore) è 

un processo di rapida sperimentazione attraverso una serie di canali di marketing per individuare i modi più efficaci per far crescere un business.

 

Perché il growth hacking è importante per la tua azienda

Ti anticipo che tutto quello che leggerai, porta ad un'unica grande verità: bisognerebbe prendere decisioni di business basate sui dati e non "di pancia". Detta così, siamo tutti d'accordo (anche se la sensazione, il feeling fa parte del nostro essere umani). In verità ci sono ancora troppo poche aziende che si muovono in base ai risultati: a dire il vero ci sono ancora poche aziende che decidono di misurare in qualche modo i propri asset, digitali e non.

Quello che sto cercando di dire è che abbiamo finora parlato di decisioni prese grazie alla combinazione di strategia, performance e relativa misurazione e analisi dei dati raccolti ma che ancora troppe aziende fanno marketing senza dati a supporto: in effetti, se le cose funzionano in questo modo, perché un'azienda dovrebbe cambiare e spendere tempo e denaro per mettere in piedi un sistema di sperimentazione e misurazione?

Ecco alcuni motivi per cui metodologie come il growth hacking sono importanti per la tua azienda:

  1. Accountability. La traduzione in una parola non esiste, per cui ci teniamo la definizione inglese. Diciamo che è la capacità di rendicontare ogni singola azione di marketing e capire con esattezza cosa ha funzionato e cosa no.
  2. ROI sotto controllo. Ovviamente si tratta di ottimizzare ogni iniziativa e di conseguenza avere un ritorno maggiore sul busdget a disposizione
  3. Non ripetere gli errori. Avere uno storico per decidere quali azioni di marketing o comunicazione fare o non fare.
  4. Framework scalabile. La metodologia non è dipendente dal business ma può essere adattata ad ogni azienda e ogni attività.

 

Growth hacking e organizzazione aziendale

Il growth hacking, cercando di sfatare qualche falso mito, non è appannaggio di un cavaliere solitario che dall'alto della sua sapienza con Excalibur in mano risolve i problemi dell'azienda. Anzi, tutto il contrario. È un lavoro di santa pazienza e soprattutto un lavoro di squadra. Perché il team è così importante per il growth hacking?

Quanto andremo ad approfondire nelle prossime righe non è solo appannaggio del growth hacking ma una regola generale per il funzionamento di ogni azienda. Per farlo, come sempre, ti racconto la nostra esperienza.

Da qualche anno, l'agenzia di comunicazione per come l'abbiamo sempre vista e conosciuta sta cambiando: ne abbiamo già parlato in questo blog, affrontando il tema dell'allineamento marketing e vendite e devo dire che questo, da quando abbiamo iniziato, sta diventando sempre di più la nostra mission. Perché ti dico questo?

Perché tipicamente in azienda c'è uno scollamento tra reparti, una organizzazione storicamente organizzata in "silos" in cui ogni comparto ragiona per propri obiettivi, con una propria strategia e prendendo scarsamente in considerazione il lavoro e gli sforzi degli altri. Una specie di chiusura all'interno del proprio gruppo e dove tutto ciò che sta fuori viene percepito come avverso.

Nella maggior parte delle aziende con cui ci relazioniamo per la prima volta, questa appena descritta è una situazione, direi, normale. I reparti marketing e vendite sono organizzati per silos, le poche volte che il marketing passa lead alle vendite, queste non li prendono in gestione, nessuno dei 2 gruppi parla con l'R&D, mentre le Risorse Umane fanno colloqui a professionisti che non verranno mai valutati dai loro futuri responsabili. E sono solo esempi (vita reale, in ogni caso).

In questa realtà, come avviene il cambiamento? Come si fa innovazione di prodotto? Come si gestisce una situazione in cui un marketing fa una ricerca di mercato ma la tiene per sé, le vendite hanno degli insight sui clienti ma non le condividono e il reparto di Ricerca e Sviluppo lavora su nuovi prodotti senza avere delle solide basi analitiche alle spalle? 

La risposta è nella cultura aziendale, nella motivazione delle persone, negli obiettivi, nei valori condivisi: la risposta è nelle persone. Ma le persone difficilmente si allineano ad una visione aziendale in autonomia. Devono essere motivate, devono poter crescere, devono sentire il giusto livello di ingaggio e responsabilità legati al proprio ruolo, devono essere rispettate per quello che fanno e per come lo fanno.

Il Growth Hacking Marketing

Il Growth Hacking è quindi una combinazione di marketing, programmazione e service design in grado di individuare i metodi più efficaci per far crescere il proprio business, attraverso tecniche di SEO, SEM, Email Marketing, attività sui Social Network e A/B testing.

Una metodologia che ha come unico obiettivo il costante miglioramento delle prestazioni degli strumenti digitali.

Una lista infinita di piccoli interventi su sito e blog diventa presto una grande occasione performance-driven: test su test, prove su prove, esperimento su esperimento disegniamo la strada verso il successo.

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Oggi, sigle come WPO (Web Performance Optimization), UI (User Interface) e UX (qui la Guida alla User Experience) sono all'ordine del giorno per chi si occupa di digital in maniera strutturata e con approccio in linea con quello che il mercato richiede. O che almeno dovrebbe richiedere.

Growth Hacking Italia: a che punto siamo?

Non voglio aprire il solito capitolo "le Aziende non chiedono e le Agenzie sono bravissime", anzi. Qui il problema è condiviso: rimanere aggiornati è un processo faticoso e dispendioso.

Richiede la volontà e la possibilità di ritagliarsi del tempo per leggere, comprendere e approfondire e non sempre è facile.

Questo vale per le Aziende tanto quanto per le Agenzie: il capitolo di oggi sarà quindi "le Aziende non chiedono, ma le Agenzie non propongono", perché anche in Agenzia le persone che si occupano di Digital sono troppo poche e spesso non sono il front-end con il cliente (anche perché di solito parlano una lingua incomprensibile ai più).

Oggi in Italia il mercato digital è molto florido, ma ci sono due problemi: da un lato c'è uno scollamento tra le parti delle agenzie, dove il Digital avanza e difficilmente gli altri riescono a tenere il passo.

Dall'altro la tecnologia avanza forse troppo rispetto alla media delle richieste che ci vengono fatte alle aziende: la tecnologia c'è, ma per sfruttarla al meglio bisogna conoscerla e capirne le implicazioni.

Oggi ci sono strumenti tramite cui è possibile ottimizzare i le performance del sito: controllare heatmap, scrollmap, user testing, split-test. 

Profilare utenti in base al loro comportamento online e fornire contenuti dedicati che sappiamo essere interessanti per loro.

Cioè. Mi spiego meglio. Stiamo parlando, per esempio, di siti che si adattano in base alle caratteristiche di chi lo visita, per cui apparirà diverso ad ogni utente.

Le agenzie Growth Hacking

La strada è stata segnata ormai da qualche tempo da colossi come Amazon, ma questo non significa che altre aziende si debbano rassegnare a siti più normali e standardizzati.

  1. Dal lato delle Aziende il problema è nella domanda, quindi. Il mondo della tecnologia evolve e, tra nuove possibilità e device sempre connessi, il marketing dovrebbe essere in grado di sfruttare tutti gli strumenti a sua disposizione per fare il salto rispetto alla concorrenza. Come detto mille volte il futuro del marketing è nei dati, nella conoscenza dei propri consumatori. Per fare questo però bisogna sapere come muoversi e cosa è possibile fare. 
  2. Dal lato delle Agenzie il problema è nell'offerta. Troppi siti statici, troppe piattaforme abusate e che sotto sotto non danno vero valore aggiunto.

La nostra idea invece è quella di spingere proprio in questa direzione: OFG Advertising ha sviluppato un approccio strategico al digital marketing volto alla crescita (di cui il Growth Hacking è solo una parte) completo e centrato sulla misurazione di performance e risultati. 

Ad oggi l'agenzia offre un pacchetto completo su:

  1. Pianificazione media digitale (e classica)
  2. Content Strategy e Inbound Marketing 
  3. Digital PR e Influencer Marketing
  4. Tutto il resto (siti, SEO, app mobile) che però non è oggetto del presente articolo

Ci portiamo avanti e continueremo, nel nostro piccolo, ad innovare e portare avanti la nostra crociata a favore di crescita e cambiamento.

 

Growth hacking e buyer personas

Abbiamo visto come il growth hacking è un processo orientato alla crescita costante. Ti provo a raccontare ora come lo utilizza l'agenzia.

Tutto parte dalla Discovery, il percorso di analisi preliminare che OFG svolge attraverso strumenti di Design Thinking e che punta alla comprensione delle Buyer Personas e del loro Customer Journey, passando per l'analisi della value proposition aziendale e l'analisi di tutti i touchpoint dell'ecosistema di comunicazione.

Qui vale la pena di approfondire un attimo. Ogni volta che si parla di growth hacking, diventa inevitabile affrontare tutti questi temi. Perché? Perché non diciamo come si fa growth hacking, ma siamo sempre lì a parlare di Buyer Personas & co.?

In verità, ed è qui che mi preme rendere chiare le cose, analizzare tutto è già fare growth hacking. Almeno una sua parte. Facciamo un esempio pratico (e abbastanza stupido): sul mio sito di e-commerce, ho poca gente che converte. Però il traffico è alto, quindi c'è qualcosa sul sito che non funziona. Cos'è? Eh, bella domanda.

Comincio ad immaginare quali possono essere tutti i problemi che un utente incontra (che ne so, la registrazione, il pagamento, il carrello, tutti i bottoni al posto giusto) ma poi ad un certo punto esaurisco le idee. Perché queste sono le mie percezioni sul mio sito. Ma le mie idee contano il giusto quando poi sono i miei clienti che devono acquistare.

Per cui la prima cosa che mi viene in mente è sentire la loro opinione sul sito. Poi magari faccio dei test di UX o user experience e raccolgo le loro impressioni. Poi già che ci sono gli chiedo del mio marchio, dei miei prodotti, dei miei concorrenti. Poi a questo punto gli chiedo quando ha cominciato a pensare di voler comprare il mio prodotto e comincio a disegnare il suo percorso di acquisto, così che possa intercettarli anche nel momento di ricerca preliminare di informazioni ad esempio. Poi gli chiedo quali sono i messaggi a cui sono più sensibili, così capisco quale tono di voce usare. E mi fermo qui perché l'esempio come detto è stupido. Se fosse stato meno stupido sarei andato avanti perché i dati da raccogliere sono innumerevoli.

Questa, quindi, è la differenza tra la mia immaginazione e il mondo reale. Ci vogliono ipotesi concrete, basate su fatti non su opinioni personali. Quando ho raccolto tutte queste, e molte altre informazioni, inizio a fare delle ipotesi e le testo per vedere quale di queste ha un senso.

Ecco, il punto è proprio qui: la Discovery è fondamentale perché fornisce degli spunti che arrivano dal mondo reale e non sono solo nella mia testa. E questo è fondamentale per impostare, oltre che una corretta strategia di comunicazione marketing, il mio lavoro di sperimentazione.

Ecco perché chiunque parli di growth hacking vi parlerà sempre e comunque degli strumenti di analisi, che guarda caso rientrano per la maggior parte nel regno del Design Thinking.

 

Far crescere l'azienda con il growth hacking 

Fail often, fail fast - Ryan Babineaux

Questa citazione è una delle mie preferite perché, oltre a sdoganare il concetto di fallimento ce lo mostra sotto una nuova ottica: il fallimento come strumento necessario per poter crescere. Sono completamente d'accordo.

Quindi, ammesso e non concesso che fare delle ipotesi e non trovare poi conferma nei fatti significhi veramente "fallire", l'importante è capire le motivazioni per cui quella cosa non sta funzionando come l'abbiamo immaginata, trovare la regola e trarne un insegnamento. Se serve a imparare, il fallimento non sarà andato sprecato.

Questa secondo me è la vera forza del growth hacking ed è uno dei motivi per cui dovrebbe diventare una prassi in ogni azienda: reinventa il concetto di quello che non funziona per metterlo in nuova luce. 

Parlando di growth hacking non possiamo non guardare alla teoria dei Jobs to be Done: tanti innovatori si concentrano su quello che i clienti vogliono ma in realtà sapere cosa i clienti non vogliono ha spesso un valore maggiore. Qui il concetto è lo stesso: sapere che una cosa funziona va bene. Sapere che non funziona va bene uguale.

Stiamo in qualche modo ridefinendo anche il concetto di errore: il fallimento come lo stiamo intendendo oggi non è un errore. Un vero sbaglio, invece, sarebbe sapere che una cosa non funziona ma portarla avanti lo stesso. Insomma, un "errare humanum est" reloaded.

Ecco, una prima idea di growth hacking potrebbe essere questa. Una metodologia per imparare dai nostri fallimenti e che ci evita di commettere (più gravi) errori. Approfondiamo un po'.

 

Growth hacking e digital marketing

Quindi cos'è il growth hacking? Per quanto lo conosco, è uno strumento. Una metodologia, un processo in realtà, che si fa strumento al servizio della crescita. Niente di più, niente di meno. Anche se qualcuno vorrebbe farlo credere, non può essere la cura per tutti i mali del marketing o la soluzione finale al problema di aumentare le revenues. Si tratta di uno strumento che come tutto richiede impegno, studio, lavoro, creatività ma soprattutto cultura aziendale, come già detto per il Design Thinking e tutte le altre metodologie agili e lean. Perché bisogna essere pronti ad adottare nuovi processi e nuovi strumenti: non esiste il guru del growth hacking, il Maestro Jedi che guarda il prodotto e l'azienda e tira fuori l'hackerata del secolo. C'è un grande lavoro di analisi prima, di ideazione e messa in pratica dopo.

Insomma, anche i sopracitati casi di successo mondiale non ne fanno mistero: il growth hacking è uno strumento di crescita solo se utilizzato con rigorosa metodologia. Quindi, ancora una volta, cos'è il growth hacking?

 

Il funnel dei Pirati, il modello AAARRR 

Ok, pensavo di riuscire a non farlo ma alla fine il discorso mi ha portato qui. Credo che non serva un altro articolo dedicato al Pirate Funnel, quindi non ci dedico l'articolo ma ne dobbiamo parlare anche se velocemente. Accettiamolo.

Horatio_McCallister e il Funnel dei Pirati del Growth Hacking

Il funnel del growth hacking ha generalmente 5 o 6 fasi, dipende da chi ve lo racconta. Troverai alcune versioni del funnel che hanno 5 punti o nelle quali alcune voci sono invertite. Questo perché non è scienza ma solo una questione di marketing: che l'acronimo delle voci sia AARRR, AAARR oppure AAARRR l'importante è che suoni come il grido tipico del Pirata ubriaco. A me in realtà viene in mente il capitano McAllister dei Simpson. In ogni caso, ecco tutti gli step:

  1. Awareness. Mi rivolgo ad una fascia di pubblico che in questa fase denominiamo "sconosciuta". Qui cerco nuovi clienti all'interno dell'universo degli utenti.
  2. Acquisition. Gli sconosciuti mi lasciano il contatto e diventano lead. Mi registro alla newsletter o scarico un ebook.
  3. Activation. I cold lead diventano caldi e si dimostrano interessati al prodotto. Diciamo che per un software potrebbe essere la fase del "free trial".
  4. Retention. Il prodotto piace e torno ad utilizzarlo più volte. Non disinstallo la free trial ma mi accorgo che mi è utile.
  5. Revenue. Sono disposto a pagare per un prodotto. Acquisto la versione "pro" del suddetto software.
  6. Referral. Dico ai miei amici quanto è bello usare quel prodotto.

Le fasi in realtà sono sempre le stesse che ci sono anche in altri funnel, qui magari ulteriormente spacchettate. Il punto tuttavia non è quante fasi ci sono, ma quanto queste siano rilevanti per il business che state analizzando.

Ci potrebbero essere dei Journey, infatti, per cui non è interessante andare ad analizzare la fase di Activation perché possiamo considerarla una parte della fase di Acquisition: per un B2B, ad esempio, dove il Customer Journey diventa un Buyer's Journey una vera attivazione del cliente è di difficile definizione. O la fase di retention non si può applicare ad una trial di prodotto (perché non esiste) ma può essere spostata dopo ed essere considerata una fase di post-vendita e qualità del servizio. Ma è solo un esempio (valido per la mia agenzia, però).

Per una ONLUS nostra cliente, ad esempio, ne abbiamo considerate 4 perché il donor's journey, per quel particolare evento, era ancora diverso e, ad esempio, la fase di referral doveva avere un peso maggiore.

 

Growth hacking, funnel e customer journey

Perché la digressione sul funnel di marketing e vendita? Non avevo scopi puramente accademici, giuro. Mi interessa approfondire come poter applicare questo discorso alla vita reale. Cosa vuol dire veramente Awareness e cosa me ne faccio? Cosa significa lavorare sulla fase di Revenue? Come posso trasformare i miei clienti in evangelisti?

Ovviamente non ho le soluzioni, ma vorrei provare a rispondere a questo tipo di domande per fare un passo in più verso la comprensione di cos'è il growth hacking.

Se la Customer Journey Map è una semplificazione di quello che avviene nella vita reale, il funnel (non solo quello dei pirati) è una ulteriore schematizzazione del Customer Journey. Ci indica le macro fasi attraverso cui generalmente ogni consumatore passa prima di acquistare un prodotto.

Preso così, il funnel è molto utile per clusterizzare le azioni di marketing e dare loro un obiettivo preciso. Diciamo che mi semplifica la definizione degli obiettivi secondo la pertinenza di ogni attività da misurare all'interno di ogni fase: è più difficile da spiegare che da fare. Per la fase di awareness, dove sto andando a caccia di nuovi clienti, non potrò essere focalizzato su come intendo registrare il loro contatto sul mio sito o come dovranno pagare il mio servizio. In quella fase sarò concentrato su come ampliare il più possibile la base utenza, per cui valuterò tutti i tipi possibili di advertising, studierò a fondo il mio piano editoriale e cercherò di incastrarlo in una strategia SEO pertinente e prenderò in seria considerazioni i social media come fonte di traffico.

La cosa bella però è che posso associare agli stessi strumenti che ho appena citato altri obiettivi che non hanno necessariamente nulla a che fare con l'Awareness. Così posso usare l'advertising per spingere direttamente il mio prodotto (fase di Revenue), il piano editoriale e SEO per fare lead generation (fase di Acquisition) o i Social Media per fare post-vendita (Retention) o far sì che i miei clienti parlino di me ai loro amici (Referral).

Quindi, ancora una volta al di là delle mistificazioni, il funnel (dei pirati, o anche no) deve essere una guida per le nostre azioni. Se fin qui è tutto chiaro, c'è un ultima domanda che dovrebbe girarti in testa ed è... da dove comincio? Come faccio a sapere quale fase funziona meglio (e quale peggio) al di là delle evidenze? La risposta è semplice e non richiede grandi approfondimenti.

Inizia dal tuo ecosistema di comunicazione. Analizza i tuoi touchpoint, guarda la funzione che hanno in ogni fase del funnel e trova i buchi nell'esperienza del cliente (customer experience). Solo dopo puoi partire a disegnare il tuo Customer Journey.

Le etichette del funnel sono quindi semplici label che, prese da sole, non ci dicono nulla ma acquistano un significato solo se calate nella realtà di ogni business. Ecco un altro motivo per cui la fase di analisi, la Discovery, è fondamentale.

 

Sviluppare il mindset per  il growth hacking

Applicare il growth hacking all'interno di un'azienda che non è culturalmente pronta, non si può. Non senza fatica, non senza sprechi di tempo e denaro, non senza difficoltà nei rapporti, non senza progetti iniziati e mai terminati.

Ecco perché noi proviamo a metterci in mezzo e agevolare un cambiamento, che noi sappiamo essere necessario, nell'interesse di tutti gli stakeholder. Come sempre, lo abbiamo visto con il Design Thinking, è un tema di cultura aziendale e funziona solo se si ha l'appoggio di sponsor di progetto importanti e con il potere di cambiare le cose.

Abbiamo leggermente divagato, ma è servito per arrivare al dunque. Per citare uno famoso (in realtà 2 famosi nello stesso momento, direi un record personale) un paio di anni fa ho assistito ad uno speech di Dharmesh Shah (uno dei soci fondatori di Hubspot) che raccontava come Elon Musk gli avesse aperto gli occhi su come far crescere un business, parlandogli di fisica e dei vettori:

Every person in your company is a vector. Your progress is determined by the sum of all vectors.
growth hacking -allineare i reparti aziendali - far crescere il business

 

Il punto è che se due forze simili applicate ad un qualsiasi oggetto tirano in direzioni opposte, l'oggetto resta fermo. Così fa un'Azienda.

Mi viene in mente il tiro alla fune: alla fine del gioco, qualcuno vince e tira a sé gli altri. Ma con che fatica. E, fuor di metafora, non è detto che portare gli altri verso di sé sia la cosa giusta per l'azienda. Le immagini qui sopra e sotto sono prese direttamente dalla presentazione di Dharmesh.

growth hacking -allineare i reparti aziendali - far crescere il business

 

Ok, direi che abbiamo capito perché bisogna fare in modo che in Azienda le persone si parlino e percepiscano gli altri come alleati e non come nemici. Sembra banale, ti assicuro che non lo è. Io adoro, ADORO, parlare di queste cose perché alla fine tutto torna, tutto si incastra perfettamente in un disegno logico: metodologie come il Design Thinking, metodologie Lean e Agile come lo SCRUM (che abbiamo adottato già da qualche anno in agenzia), lo stesso growth hacking obbligano le aziende a cambiare passo e a fornire nuove prospettive su come fare innovazione e far crescere il business.

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E, tutte, lo fanno allo stesso modo: obbligando ad adottare nuovi modelli che si possono attuare solo avendo ben chiaro che bisogna agire, prima che sull'organizzazione, sulla cultura aziendale. Bene, ci siamo arrivati. Come abbiamo visto, il growth hacking non fa eccezione perché, per poter essere applicato con successo, richiede team interfuzionali.

 

Growth hacking e il  team interfuzionale 

Partiamo dal presupposto che l'innovazione non arriva per caso (a volte in realtà sì, ok, ma è più raro) ma è frutto di lavoro, test, prototipazioni, analisi, letture dei dati, interviste a clienti e tutto quello che abbiamo visto fino ad ora.

Come sappiamo il growth hacking ha un forte accento sulla fase legata alla sperimentazione. In realtà il growth hacking è spesso associato solo a questo aspetto, che di per sé non è sbagliato. Fermiamoci un secondo a ragionarci sopra. Ma cos'è che vado a testare? Su cosa sono fondati i miei esperimenti? Avrò fatto delle ipotesi, prima. Cioè, avrò delle idee che devo testare. Queste idee da dove arrivano?

Ecco il ruolo del team. Periodicamente, potrebbe essere ogni settimana, il team si incontra e, dopo aver valutato i risultati degli esperimenti fatti durante la settimana passata, genera nuove idee per nuovi esperimenti. E poi deve fare gli esperimenti. E poi deve leggerne i dati. E poi li devi interpretare per trovare gli insight. E poi deve ricominciare da capo.

Ed ecco perché deve essere interfunzionale, cioè deve comprendere diverse professionalità, ognuno con le sue conoscenze, formazione, caratteristiche. Qui si tratta di abbracciare la diversità e accettarne le conseguenze. Io, in quanto markettaro, porto nel team la mia forma mentis, che nasce dalla mia esperienza personale e lavorativa e dalle cose che so. Io posso essere utile al team, se parliamo di advertising ad esempio. Se iniziamo a parlare di sviluppo software in maniera tecnica, già meno. Se parliamo del prodotto e di ogni sua funzionalità, boh sì forse posso dire la mia entro certi limiti. Se parliamo di come gestire i dati raccolti dagli esperimenti, no direi di no, non è il mio.

Quindi. Per parlare di vera innovazione devo poter lavorare su diversi ambiti che non possono essere interamente coperti dal sapere di una persona. E, se anche fosse, non avrebbe comunque il tempo di gestire tutte le informazioni che si genereranno.

 

Creare un team di growth hacking

Va bene. Quali figure dovrebbero partecipare al team? Direi almeno 3 categorie di professionisti:

  1. Chi ha sotto controllo la visione strategica. Qualcuno che guidi il team verso l'obiettivo aziendale, che abbia l'occhio sul business. Qualcuno che prenda tutti i vettori di Elon e li allinei nella stessa direzione.
  2. Chi ha sotto controllo i dati. Qualcuno che sia a suo agio con i fogli di Excel e sappia leggere i dati per generare gli insight di cui tanto parliamo.
  3. Chi ha sotto controllo il prodotto. Qualcuno che possa intervenire sul design del prodotto, sulle sue funzionalità e su come fare marketing.

Diciamo che, come ci dice Sean Ellis in dettaglio, il team perfetto sarebbe composto da:

  1. Growth Leader. Una persona che vede la luce, che sa dove andare ma soprattutto che sappia guidare gli altri in quella direzione. Qualcuno che sappia qual è l'obiettivo dell'azienda, conosca il business e partecipi attivamente alla generazione di idee. Skills richieste: sapere come gestire gli esperimenti, alta confidenza con i numeri e deve avere un visione a 360 gradi sul prodotto.
  2. Product Manager. Una persona che conosca tutto del prodotto, come è nato e come si sviluppa. Quali sono le sue caratteristiche, quali funzionalità e limiti ha.
  3. Software Engineer. Fondamentali per fare test digitali su landing, sito, advertising e per gestire piattaforme. Fondamentali.
  4. Markettaro. Cavolo, da membro della categoria mi scoccia dire che non è obbligatorio avere qualcuno del marketing. Però è caldamente consigliato, diciamo, per apertura mentale e pensiero out of the box. Bellezza e simpatia, ovviamente.
  5. Data Analyst. Torniamo sul fondamentale. Non significa solo leggere i dati ma organizzare gli esperimenti in modo che ci siano dei dati da interpretare. Qualcuno che si assicuri che gli esperimenti siano ben impostati e che diano un risultato leggibile.
  6. Product Designer. Una persona che sappia mettere le mani sul prodotto e che eventualmente possa generare prototipi da testare in tempi ragionevolmente stretti.

 

Growth hacking e la sperimentazione

Per capire cos'è il growth hacking, dobbiamo passare sicuramente per il processo di sperimentazione: questa è sicuramente la parte che ha reso famoso il growth hacking. Per tutti, infatti, questa metodologia è diventata sinonimo di esperimento. Che non è sbagliato. Semplicemente, come abbiamo già visto parlando ad esempio di come costruire un team di lavoro, c'è di più. Cosa in particolare?

Tanto per cominciare bisogna conoscere almeno 3 cose:

  • Cosa. Il nostro prodotto è un must-have? Qual è la sua proposizione di valore?
  • Chi. Per quali delle nostre Buyer Personas esprime il massimo del suo valore?
  • Perché. Perché per loro è così importante? Perché lo considerano di valore?

Senza queste 3 risposte è difficile andare oltre. Si può fare, ovviamente, ma conoscere le risposte aiuta ad indirizzare la strategia di crescita (e gli esperimenti di conseguenza) nella giusta direzione. La verità è che per quanti sforzi di marketing un'azienda possa sostenere, difficilmente si può fare amare un prodotto se non si agisce sulle giuste leve di comunicazione: questo è uno dei motivi per cui il growth hacking è strettamente interconnesso con il Design Thinking e con la teoria dei Jobs to be Done. Tutto quello che ci può aiutare a capire il prodotto stesso, il suo valore e le buyer personas è di fondamentale importanza.

Ecco perché OFG Advertising ha ideato la Discovery, un processo di analisi e comprensione di Buyer Personas e Value Proposition che l'agenzia utilizza per dare il kick off ad ogni progetto. Oggi, che la Discovery è diventato uno strumento di lavoro praticamente quotidiano, ci sembra così strano aver lavorato per tanti anni senza. Ovviamente c'erano altri strumenti, ma questo ci sembra più completo.

Quindi. Primo passo per la sperimentazione di successo: comprensione di cliente, prodotto e soprattutto della relazione tra queste due variabili.

Pensi di sapere già tutto? Può essere. Ricordati però, come abbiamo visto parlando dei Jobs to be Done e di competizione che nella maggior parte delle volte i consumatori che utilizzano un determinato prodotto non lo fanno per gli stessi motivi per cui è stato pensato. Conoscere i veri motivi diventa quindi fondamentale per almeno 2 ragioni:

  1. Trovare le giuste leve di comunicazione e marketing per avvicinare nuovi clienti
  2. Trovare la giusta direzione verso cui sviluppare le nuove funzionalità del prodotto

Che fondamentalmente siginificano una cosa sola: evitare di disperdere tempo e denaro in azioni o funzionalità che non hanno senso per i nostri clienti.

 

Le 6 regole per impostare gli esperimenti

Ok, diciamo che abbiamo fatto bene i compiti a casa e ci siamo preparati. Abbiamo fatto una Discovery approfondita e ora sappiamo chi sono i nostri clienti, cosa pensano del nostro prodotto e come lo usano. Ora come ci muoviamo? È il momento di parlare degli esperimenti e di come impostarli. Prima però, che cosa esattamente devo testare?

In verità, puoi testare tutto quello che vuoi. Basta, ovviamente, che tu sia in qualche modo in grado di misurare il risultato e capire se per te ha avuto successo. Questo del "successo" è un tema che preferisco approfondire.

Se la prima regola di ogni esperimento è che deve essere misurabile, la seconda ad ogni obiettivo corrisponde un modo di misurarlo (una metrica quindi). Avere chiara la metrica da tenere sotto controllo significa quindi capire al volo se si avvicina o meno all'obiettivo che ci siamo posti. Così, il traffico sul sito, il numero di conversioni, le revenue di quella pagina prodotto. 

Tenere ben presente queste due affermazioni:

  1. Un obiettivo = una metrica
  2. Un esperimento una metrica

Mentre, in linea generale, ad un singolo obiettivo corrisponde una singola metrica, la stessa cosa non vale per l'esperimento totale. Anzi. Spesso è meglio tenere sotto controllo diverse metriche, perché al variare di una potrebbero variare anche altre (aumento il traffico, mi auguro che aumentino le conversioni).

Quindi, ricapitolando. Ne scelgo una che guida l'esperimento. Ne scelgo altre per controllare eventuali correlazioni e pattern. 

Come scelgo le metriche, al di là delle ovvietà? Il momento è propizio per introdurre quella che Sean Ellis chiama la North Star Metric, cioè quell'unica metrica che definisce la vera crescita dell'azienda. Questa metrica è quindi il vero motore di crescita e corrisponde ad un obiettivo a lungo termine: in quest'ottica tutti gli esperimenti devono essere orientati a far crescere That Metric That Matters.

La North Star Metric è ciò che ci tiene attaccati alla realtà quando parliamo di esperimenti: essendo l'unica cosa che conta, alla fine, deve servirci da bussola (ecco perché North Star) per orientare i nostri esperimenti. Perché nelle diverse riunioni in fase di progettazione degli esperimenti, è facile farsi prendere la mano e partire per la tangente. Ovviamente, invece, bisogna restare focalizzati e pensare agli esperimenti come ad un modo per far crescere la metrica che conta. Questo è il modo corretto di pensare e progettare la fase di sperimentazione.

Quindi la terza regola è: tenere sempre un occhio sull'esperimento e un occhio sulla North Star Metric. Cioè, un occhio al particolare e un occhio sempre al quadro generale.

La quarta regola da tenere presente è che il rapporto che devi avere con gli esperimenti è da una notte e via, non c'è amore in quello che fai. Affezionarsi alle idee e incastrarsi sulle proprie posizioni non va d'accordo con l'alta velocità con cui sperimentare. Innamorarsi delle proprie idee, inoltre, rischia di farci perdere l'obiettività e non ce lo possiamo permettere.

La quinta regola riguarda i numeri. Che, attenzione attenzione, non sono tutto. I numeri ci dicono cosa fanno gli utenti e in che misura ma non ci dicono il perché lo fanno: questo tema lo abbiamo affrontato parlando di Jobs to be Done e Consumer Insights.

La sesta regola riguarda (ancora) i numeri. Che è vero che non sono tutto, ma sono importanti e devono poter essere letti. Questo è uno dei motivi per cui la fase di reporting è fondamentale: visibilità massima ai risultati, meglio se si costruiscono delle dashboard da controllare. Noi a questo proposito abbiamo iniziato ad usare Google Data Studio e in alcune occasioni DataBox.

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Ricapitolando le 6 regole (che sono solo le principali) degli esperimenti di growth hacking:

  1. Sempre e comunque misurabili
  2. Un obiettivo = una metrica
  3. Le metriche sono guidate dall'unica Metrica che conta
  4. Avventure di una notte con ogni esperimento, niente amore.
  5. I numeri ci dicono cosa succede ma non perché
  6. Importanza di un Reporting fatto bene

Come abbiamo visto, nel growth hacking, tutto comincia tutto con la Discovery, un processo di comprensione di Buyer Personas e dei loro obiettivi come consumatori (come spiega la teoria dei Jobs to be Done). Questo serve per capire cosa dire, come dirlo e a chi. Ma non solo. Conoscere il rapporto tra consumatore e prodotto ci aiuta almeno a trovare il giusto modo di:

  1. Sviluppare il prodotto in un modo interessante per i nostri clienti
  2. Studiare il percorso di crescita che vogliamo avere e quindi studiare il nostro piano di sperimentazione

Per il primo punto, rimandiamo al Design Thinking. Il secondo punto, invece, lo affrontiamo a breve, parlando di cos'è il growth hacking e come gestire gli esperimenti.

 

Le fasi del processo di sperimentazione

Il grande presupposto è l'alto volume delle sperimentazioni. Purtroppo non tutti gli esperimenti si chiudono come vorremmo, non tutta addirittura si chiudono con indicazioni chiare su come procedere. La quantità di risultati non conclusivi sarà alta, vale quindi la pena di generare un numero elevato di esperimenti in modo tale da ottenerne qualcuno che possa essere valutato in maniera chiara (e magari positiva).

L'altro grande presupposto è che la crescita è generalmente ottenuta da una somma di piccole crescite, dovute a diversi esperimenti. Difficilmente si ha un colpo di genio (in realtà probabilmente stiamo parlando di un colpo sì, ma non certo di genio) per cui un unico esperimento porta ad una crescita esponenziale. Man mano che si avanza con le ottimizzazioni, crescere diventa sempre più una questione di dettagli.

Ora che sappiamo la verità, possiamo procedere. Il growth hacking Cycle è composto da 4 fasi:

  1. Discovery e Analisi dei dati
  2. Generazione di idee
  3. Assegnare priorità agli esperimenti
  4. Sperimentazione vera e propria

Ovviamente si tratta un circolo, per cui finita la fase di Sperimentazione si torna alla fase di Analisi e si ricomincia da capo: il circolo deve essere organizzato e gestito dal team attraverso un meeting settimanale di circa un'ora in cui si valutano i risultati e si decide su cosa procedere nella settimana entrante. Vediamo brevemente le 4 fasi.

 

Discovery e Analisi dei dati

In realtà sono 2 fasi in una. La Discovery è centrata in questo caso sull'identificare e diversificare i comportamenti di coloro che sono nostri clienti (quelli per cui il nostro prodotto è un prodotto top) da quelli che magari ce l'hanno ma non lo usano. In questa fase i miei obiettivi sono:

  1. Quali sono le caratteristiche dei miei clienti top
  2. Quali sono i loro comportamenti (digitali e non che li identificano rispetto ad altri clienti meno ingaggiati)
  3. Quali sono gli eventi che portano al non utilizzo del mio prodotto

Già, perché come abbiamo visto nei Jobs to be Done e nello studio delle 4 forze che regolano il comportamento di acquisto, anche il non-utilizzo deve essere studiato e fornisce importanti informazioni.

Dicevo che sono 2 fasi in una. La Discovery è un processo on-going, sempre attivamente alla ricerca di dati per affinare la conoscenza dei miei clienti. La seconda sotto-fase è quella dell'analisi dei dati degli esperimenti, in cui ogni settimana ci si trova e si analizza quanto successo nella settimana precedente per prendere decisioni sugli esperimenti futuri.

 

Generazione delle idee

Tutto nasce dalle ipotesi, che sono la scintilla che genera gli esperimenti. Ogni ipotesi deve essere affiancata da almeno un Obiettivo che guiderà l'esperimento. Come disse il chimico Linus Pauling, vissuto praticamente tutto il secolo scorso:

The best way to have a good idea is to have lots of ideas

Il concetto mi sembra chiaro. Le idee di cui stiamo parlando sono ovviamente legate a cosa testare e come farlo e sono generate in quantità e non in qualità, secondo il principio appena visto. Diciamo che dopo la riunione di kick off settimanale, il Growth Leader lascia un paio di giorni a tutti i membri del team per lasciare libero sfogo alla propria immaginazione.

Qui si capisce bene perché il Growth Team deve essere interfunzionale: ognuno, contestualmente alle sue capacità, skills e conoscenze, proprorrà esperimenti legati al suo settore operativo, alla sua esperienza e sui quali si sente più sicuro di poter essere di aiuto. Così il designer parlerà di funzionalità, il product manager del prodotto, l'ux designer del sito e app e così via.

La lista generata deve essere in qualche modo standardizzata. Descrizioni brevi, obiettivi e metriche chiari. Tutto in una sola lista che raccolga le idee di tutti.

 

Assegnare priorità agli esperimenti

In un mondo perfetto, alla fine della seconda fase avremo una quantità di idee che potremmo fare esperimenti per i prossimi 2 anni. Da dove inizio? Bisogna in qualche modo dare una priorità, meglio se con regole standardizzate.

L'ICE score è uno dei tanti metodi (non infallibile), quello che usiamo in agenzia. In ogni caso, ICE sta per:

  1. Impact. Si trova ipotizzando quale potrebbe essere l'impatto dell'esperimento sulla metrica che vogliamo misurare. Cambiare la posizione del numero di telefono nel footer o l'intero processo di acquisto hanno un impatto differente sulla metrica "conversioni". Attenzione però, ad alti impatti corrisponde spesso maggior difficoltà e tempo di realizzazione.
  2. Confidence. Basato se possibile non su sensazioni ma su dati empirici, si tratta di ipotizzare quanto l'esperimento sarà in grado di raggiungere l'impatto ipotizzato.
  3. Ease. Quanto tempo e risorse richiede l'esperimento? Ovviamente stiamo misurando la facilità per cui più è facile, più alto sarà il valore da assegnare.

Assegnando un valore da 1 a 10 ad ognuno di queste 3 entità, L'ICE Score non è altro il risultato della moltiplicazione dei 3 valori. Ad un ICE score alto, corrsponde alta priorità. Così

ICE Score = I x C x E

 

Sperimentazione

Questa è la fase dove tutto quello che è stato ideato si mette in pratica. Si inizia con un avviso da parte del Team Leader a tutta la azienda per avvisare di non preoccuparsi se si vedono cose strane, è tutto sotto controllo.

La difficoltà di questa fase è comprendere la rilevanza statistica delle operazioni di testing. Questa operazione è complessa e, per quanto abbia studiato statistica all'università (non era il mio forte già 20 anni fa), preferisco non scendere in questo dettaglio perché si tratta di un argomento abbastanza ostico. Per questo è bene avere un Data Analyst, un ingegnere o qualcuno che sia molto affezionato alla lettura dei numeri nel team. Poi ovviamente dipende dal livello dell'esperimento.

In ogni caso, se scegli la strada statistica, è bene tenere un intervallo di confidenza del 99% (avendo cioè la certezza che ripetendo 100 volte l'esperimento, accettiamo il fatto che 1 sola volta potrebbe non dare i risultati attesi). Questo elimina il famoso "Fattore C" ("C" ovviamente sta per Fortuna).

Su questo tema vale la pena di approfodnire la teoria degli OKR, Objectives & Key Risults, per cui ogni Obiettivo, come abbiamo visto parlando delle 6 regole per impostare un esperimento, deve poter essere spacchettato in più Key Results (KR). Il Key Result è un numero e corrisponde all'obiettivo target della metrica che abbiamo scelto. Solitamente ad ogni Obiettivo corrsipondono diversi Key Results, uno principale con un intervallo di confidenza del 90%, uno secondario con confidenza al 50% e uno di terzo livello con intervallo del 10%. Se vuoi approfondire, c'è un interessante e lungo video di Google.

Tolta la parte statistica (che finisce a valle dell'esperimento), abbiamo preparato un actionable, uno dei nostri scaricabili, in cui ti aiutiamo a tenere misurato l'esperimento secondo un determinato tasso di crescita. Lo trovi qui. Un po' più semplice, per iniziare.

Se sei già ad un livello pro, e non lo conosci già, la community di growthhackers.com ha sviluppato un tool apposito (pochi dollari al mese).

 

Trovare la tua north star metric

Abbiamo parlato di KPI (Key Performance Indicators) e abbiamo parlato di quelle che i growth hackers chiamano vanity metrics. Prima di tutto: qual è la differenza tra KPI e metriche? Per citare una frase che troverai ovunque (e che quindi vogliamo avere anche noi sul nostro blog), iniziamo a dire che tutti i KPI sono metriche ma non tutte le metriche sono KPI.

Quindi i KPI sono un sottoinsieme delle metriche e, in particolare, sono quelle metriche che ci danno indicazioni sull'andamento del nostro business. Così ad esempio se il "numero di utenti/mese" è una metrica per tutto il mondo, potrebbe essere considerato un KPI utile al tuo business ma non a quello di un'altra azienda.

Questa è una bella domanda. Scegliere una metrica ed elevarla a KPI sembrerebbe una cosa facile: ho quell'obiettivo e si misura con quell'indicatore di performance. In via toerica è così, ma non sempre è tutto o bianco o nero.

Esempio? Concordiamo sul fatto che ogni azienda abbia come obiettivo ultimo il profitto? Direi di sì. Pensiamo ora ad un'associazione non-profit: è possibile che in alcuni momenti o durante alcuni eventi il suo obiettivo finale sia quello di educare le persone o influenzare qualche figura politica? A me sembra ragionevole. Il suo KPI in quell'occasione non sarà vincolato quindi a risultati economici ma sociali.

Per cui il primo takeway di giornata è che un'azienda deve tenere sempre sotto controllo il suo KPI prioritario, la North Star Metric che abbiamo visto parlando di growth hacking, ma che ogni progetto, ogni azione di comunicazione, ogni evento, ogni campagna digitale può avere i suoi KPI. Perché la metrica da valutare deve essere scelta in base agli obiettivi da misurare.

 

Come scegliere KPI misurabili ed efficaci  

Per fare un breve riassunto delle puntate precedenti, ci sono metriche che non servono a darci informazioni utili al nostro business. Quando invece ci danno informazioni che in qualche modo impattano sui nostri obiettivi di business diventano KPI.

La maggior parte delle metriche disponibili in natura non sono di grande interesse per la crescita della nostra azienda. Tra queste troviamo quelle che i growth hackers chiamano Vanity Metrics che sono quelle che servono solo a soddisfare il nostro ego di markettari.

L'esempio più banale è avere un e-commerce e prendere in considerazione metriche come il traffico o il tasso di crescita del traffico anno su anno. Oppure concentrarsi sul fatturato che genera un prodotto ma non sul margine che porta. Significa avere una visione parziale e questo non è bene.

Per cui like sui post, numero di follower sui social, traffico su sito, numero di iscritti alla newsletter sono tutti dati che ci piace tenere sotto controllo (soprattutto quando sono alti) ma che non ci danno informazioni utili se non sono inserite in un contesto più profondo e legate ad altre metriche come le conversioni che arrivano dai social, il tasso di interazione della community, il tasso di conversione medio degli utenti o i tassi di ingaggio delle newsletter che mando. E ancora non stiamo parlando veramente di business. Vediamo degli esempi di KPI un po' più di livello pro: preparati ad una serie di acronimi spettacolari.

MRR (Monthly Recurring Revenue). Indica il tasso di fatturato ricorrente ogni mese. Può essere utile sia per chi gestisce abbonamenti, sia per chi ha un prodotto che deve essere acquistato molto spesso. Il CMRR (Committed Monthly Recurring Revenue) indica il numero di clienti che si è impegnato a pagare l'abbonamento (o a comprare il prodotto) ogni mese.

CPQL (Cost per Qualified Lead). Diciamo che è una evoluzione del CPL (Cost per Lead) e rappresenta uno step ulteriore: stiamo valutando non solo la capacità di generare nuovi lead qualificati ma anche la capacità stessa di qualificarli. Questo KPI indica quindi quanto costa generare un lead che con maggiore probabilità diventerà cliente e dà allo stesso tempo un'idea di una buona parte del costo dell'attività di new business.

ARPU (Average Revenue per Client). Fatturato medio generato da un cliente.

CAC (Customer Acquisition Cost). Indica il costo di acquisizione di un nuovo cliente e messo in relazione con l'ARPU dà un'indicazione della capacità di generare reddito dell'azienda. Il costi di acquisizione è spesso usato per valutare la redditività di una campagna di comunicazione (quanti clienti ha generato rispetto al budget che le è stato dedicato).

LTV (Life Time Value). Ormai sappiamo tutti che generare nuovo fatturato da clienti esistenti è più facile e meno costoso che trovare nuovi clienti. Il ciclo di vita di un cliente e il valore che genera nel lungo periodo è un buon indicatore di quanto l'azienda è profittevole: non puoi spendere più di quanto spendano con te i tuoi clienti.

PP (Payback Period). Quanto tempo ci mette un cliente a generare un profitto equivalente al suo Costo di Acquisizione (CAC).

Fonte degli acronimi: il blog di ladder.

 

Casi di successo di growth hacking

Quando mi sono imbattuto seriamente nel growth hacking, qualche anno fa, non ne sono rimasto molto colpito. Direi più interessato. Non so come spiegarlo, a prima vista ci trovi qualcosa che ti accende una lampadina ma in qualche modo puoi comprenderlo solo in parte.

Lo studi, capisci che può generare un meccanismo virtuoso, ti lasci affascinare dalle sue potenzialità ma quando ti trovi a doverlo applicare, sembra un po' sterile. L'aura di magico su cui tanti insistono aiuta ad alimentare il mito ma anche la delusione delle prime applicazioni pratiche.

Solo dopo qualche anno ho capito che, come al solito, c'è molto di più rispetto a quanto, in maniera molto sensazionalistica, tanti professionisti cercano di dimostrare.

Alcuni importanti casi di successo di growth hacking:

  1. Dropbox
  2. Paypal
  3. Uber
  4. AirBnB (con l'hack su Craiglist, piuttosto borderline dal punto di vista morale ancor prima che legale).

Come però fa giustamente notare Sean Ellis nel suo celeberrimo libro "Hacking Growth", non è che le sopracitate aziende non hanno fatto fatica a crescere. Non è che l'idea che hanno avuto (e che effettivamente ha cambiato il mondo) era talmente incredibile che si è venduta da sola ai loro clienti. Non è che i loro tassi di crescita esponenziale sono dovuti al fatto che loro si chiamano LinkedIn o Uber.

Il punto è che il loro tasso di crescita è dettato da una lunga serie di tentativi ed errori, dall'aver messo in fila test su test, da letture di dati e dalla loro interpretazione, interviste ai clienti (Jobs to be Done, ti dice qualcosa?), intuizioni messe sotto stress da esperimenti, dalle lesson learned, dall'ottimizzazione del proprio Customer Journey e della propria strategia di comunicazione.

E senza dubbio degli enormi investimenti che sono stati sostenuti dagli angel investors. 

Luca Bizzarri