Brand e influencer: come cambia la strategia di comunicazione

Perché i volti sono il nuovo logo come cambia la brand identity nell’era della creator economy

Negli ultimi anni, la distinzione tra persona e brand si è fatta sempre più sfumata. Se un tempo il marchio era un’entità visiva, costruita attraverso simboli, payoff e identità grafiche, oggi si assiste a un’inversione di paradigma: le persone sono diventate il volto, il linguaggio e la narrativa dei brand. Stiamo parlando di creator, influencer o celebrities attraverso cui le aziende stanno riscoprendo il valore del volto umano come leva di autenticità, connessione e riconoscibilità.

Questa trasformazione è legata all’evoluzione del modo in cui le persone interagiscono con i brand. Sui social non si cerca più solo un prodotto ma un tono di voce, una visione, un volto con cui potersi relazionare. La differenza tra “brand” e “persona” diventa sempre più sottile. E in un contesto dove l’attenzione è limitata, un volto riconoscibile diventa tanto potente quanto un logo ben disegnato.

Tutto questo non significa che l’identità visiva non abbia più valore, ma cambia il suo ruolo. Le marche che stanno emergendo – o che si stanno rinnovando – stanno integrando nella propria brand identity una dimensione umana e relazionale molto più forte, fatta di creator, dipendenti, founder, ambassador. In molti casi, il brand è quella persona. In altri, la persona diventa il veicolo privilegiato per raccontare il brand.

Qyesto succede nel bene e nel male, bisogna stare molto attenti a scegliere gli influencer, i testimonial o i brand ambassador giusti, che incarnino i valori del brand, che risuonino con i clienti e che soprattutto non si sostituiscano al brand stesso, attirando su di sé tutta l'attenzione. 

Questa transizione ha implicazioni profonde non solo sul piano relazionale ma su quello strategico perché definisce un nuovo spazio per la comunicazione, un luogo dove gli influencer diventano parte della narrazione del brand pur rimanendo loro stessi (piccole o grandi) aziende e in quanto tali aperti al mercato, alla concorrenza e alle opportunità di crescita.

Potenzialmente ci sono molte opportunità da cogliere. Potenzialmente ci sono tanti rischi da prendere.

Come i creator stanno cambiando le regole del branding

La crescita della creator economy non è solo una tendenza mediatica ma una trasformazione strutturale nel modo in cui i contenuti vengono prodotti, distribuiti e consumati. I creator non sono semplicemente influencer che promuovono prodotti: sono micro-brand a tutti gli effetti. Hanno una community, un linguaggio, valori riconoscibili e soprattutto una relazione diretta con il proprio pubblico.

La forza dei creator sta nella fiducia. A differenza delle aziende, che comunicano spesso in modo istituzionale, i creator parlano in prima persona, condividono momenti reali, mostrano la propria vulnerabilità. È questa autenticità che li rende potenti. E i brand lo hanno capito. Sempre più spesso cercano collaborazioni in cui il creator non è solo un “mezzo” ma un co-creatore di contenuti e visione.

Un creator oggi può costruire una marca personale che vale quanto – o più – di molti brand tradizionali. Pensiamo a Emma Chamberlain nel mondo del lifestyle, a Marques Brownlee nella tecnologia, a Chiara Ferragni nel fashion. Ognuno di loro ha uno stile visivo riconoscibile ma soprattutto una voce unica e una narrazione coerente. Il volto è diventato il logo. Il feed Instagram è la brochure. Il video TikTok è lo storytelling.

Per i brand, questo vuol dire entrare in un ecosistema dove non basta più avere un’identità visiva forte. Serve costruire relazioni. E questo cambia radicalmente anche il modo in cui si progetta una strategia di branding.

Dal design statico alla relazione continua

Nel branding tradizionale, il logo era il punto di partenza. Attorno ad esso si costruivano colori, font, tone of voice, packaging, advertising. Oggi il percorso è spesso inverso: si parte dalla narrazione, dai valori, dalla relazione e poi si costruisce intorno un sistema visivo coerente.

Il volto, in questo contesto, è un'interfaccia relazionale. Le persone si fidano di altri esseri umani, non di simboli astratti. Un contenuto in cui compare un volto ha più probabilità di essere notato, cliccato, ricordato. Questo non è un dato estetico ma un principio cognitivo. Il nostro cervello è progettato per riconoscere e rispondere ai volti: da millenni sono il nostro primo codice comunicativo.

Di conseguenza, la brand identity diventa sempre più fluida, adattiva, modulare. Non si parla più di “coerenza” in senso rigido ma di continuità narrativa. Non si costruisce più una linea visiva chiusa ma un universo aperto, in cui ogni creator, ambassador o dipendente può reinterpretare il brand in modo autentico e personale, restando dentro i valori condivisi.

Alcuni brand hanno capito questo cambio di paradigma e stanno sperimentando nuove forme di identità: meno rigide, più relazionali. Non è un caso che molte startup tech usino come punto di accesso il volto del founder. O che le aziende più dinamiche mettano in primo piano i propri team nelle comunicazioni. Questo tipo di presenza umana non è decorativa, è strategica. Fa parte dell’identità stessa del brand.

La nuova brand equity è costruita sulle persone

Se nel marketing classico la brand equity si costruiva attraverso la ripetizione del logo e la presenza sui media, oggi è sempre più legata alla credibilità delle persone che rappresentano il brand. La reputazione si costruisce nel dialogo, nella trasparenza, nell’accessibilità. E tutto questo passa attraverso volti, voci, storie reali.

Quando pensiamo ai brand che oggi hanno un impatto culturale reale, ci rendiamo conto che quasi sempre associamo un volto a quell’identità. Spesso è il founder (come nel caso di Elon Musk per Tesla o Benedetta Rossi per Fatto in Casa), a volte è un creator ambassador, a volte sono i dipendenti stessi. In ogni caso, ciò che resta nella memoria non è il pittogramma del logo ma l’identità umana con cui siamo entrati in relazione.

Questo vale anche internamente. Le aziende che vogliono rafforzare la propria cultura organizzativa, lavorano sempre più su contenuti realizzati da persone interne: i dipendenti diventano micro-ambassador. Le HR diventano publisher. Il marketing diventa relazione e non solo promozione.

La brand equity si sposta, dunque, dal piano grafico a quello relazionale. E in questo scenario, il volto umano è il nuovo logo: perché sintetizza valori, tono, accessibilità e immediatezza.

Cosa devono fare le aziende e le agenzie per restare rilevanti

La domanda non è più solo se avere un’identità visiva forte ma come costruire una presenza umana credibile e coerente. Le aziende possono ora iniziare a progettare il branding partendo dalle persone. Chi rappresenta il brand? Chi può interpretarlo con autenticità? Come si può costruire una relazione attraverso volti, voci, micro-narrazioni?

Le agenzie, dal canto loro, devono affiancare i clienti non solo nella costruzione di loghi e visual identity ma nella scoperta di un tono umano, vivo, riconoscibile. In OFG lavoriamo su questo ogni giorno: aiutiamo i brand a trovare la propria voce, i propri volti, la propria narrativa relazionale. Non basta più creare uno storytelling: serve costruire una presenza.

Una bella case history è quella del viaggio in Italia tra i sapori di Accademia Mugnano, brand italiano di cookware, per cui abbiamo sviluppato un progetto di influencer marketing, raggiungendo risultati incredibili (oltre 11 milioni di views, oltre 7 milioni di account raggiunti) rafforzando l'autenticità del brand e la relazione con i propri clienti.

Perché oggi il branding non si disegna solamente ma si interpreta, si vive, si mette in scena. Attraverso le persone, i loro linguaggi, le loro storie.

I brand non vogliono più essere leader, vogliono essere amici

Per decenni, i brand hanno cercato di posizionarsi come modelli da imitare: icone di stile, status, successo. Il marketing costruiva immagini idealizzate, lontane dalla vita reale, con l’obiettivo di far sognare. Era un approccio aspirazionale, in cui il brand era una guida, una figura quasi mitologica che ti mostrava come dovresti essere. Oggi sta accadendo l’esatto opposto: i brand più efficaci non vogliono più essere leader da seguire ma amici con cui identificarsi.

Questo spostamento è radicale. Cambia il tono di voce, cambia il contenuto, cambia la logica stessa della comunicazione. Il pubblico non cerca più modelli perfetti e inarrivabili: cerca autenticità, empatia, vicinanza. Vuole sentirsi rappresentato, non messo a confronto. Vuole interagire con un brand che gli somiglia, non con uno che lo giudica.

È per questo che funziona il volto umano. È per questo che i creator, i micro-influencer, i founder visibili stanno diventando il punto di riferimento delle strategie di branding. Perché riducono la distanza. Perché comunicano in modo orizzontale, non verticale. Perché si mostrano imperfetti, quotidiani, accessibili. E in questo scenario, l’aspirazionale viene sostituito dal relazionale.

Il contenuto cambia di conseguenza: meno adv, più storytelling; meno “hero”, più “daily life”; meno messaggi patinati, più conversazioni reali. I brand diventano simili a persone che seguiremmo sui social: ci fanno sorridere, ci parlano con il nostro linguaggio, condividono qualcosa che sentiamo vicino. Non dicono “guarda quanto sono forte” ma “so cosa stai vivendo”.

Questa scelta comunicativa è strategica, non solo emotiva. La fiducia è fragile, essere percepiti come rilevanti significa essere riconoscibili come “uno di noi”. Non come “meglio di noi”. I brand che riescono a posizionarsi in questo spazio relazionale costruiscono una base più solida e duratura, fatta di community e non solo di follower.

Oggi il valore di un brand si misura anche nella sua capacità di entrare nel feed di qualcuno senza sembrare un’intrusione. E questo è possibile solo se il tono, il volto e il messaggio sono coerenti con un’identità umana, vicina, reale.

Esempi di brand che hanno messo un volto al centro dell’identità

Sempre più brand che operano in Italia stanno riconoscendo il valore strategico del volto umano come asset centrale per la comunicazione. Testimonial, influencer e ambassador non sono più solo “volti noti” ma interpreti del brand, capaci di rappresentarne tono di voce, valori e posizionamento in modo credibile e relazionale. Ecco alcuni esempi rilevanti.

Barilla – Sophia Loren e altri volti simbolici

Negli ultimi anni, Barilla ha portato avanti un lavoro di riposizionamento valoriale, utilizzando volti capaci di rappresentare l’italianità in chiave contemporanea. L’utilizzo di Sophia Loren come voce narrante nella campagna “The Recipe for Togetherness” è un esempio di come il brand non scelga testimonial qualsiasi ma figure che incarnano un intero immaginario culturale. In passato, anche la campagna con Roger Federer e il connubio tra sport, famiglia e cucina ha mostrato la volontà di legare il brand a volti internazionali ma emotivamente vicini al pubblico italiano. Oggi Barilla ha preso Davide Oldani come testimonial che, tra tutti, è forse lo chef più vicino alle persone comuni, che lotta per offrire cene stellate a prezzi accessibili.

Mulino Bianco – Antonio Banderas (e la svolta verso l'empatia)

Per anni Mulino Bianco ha utilizzato un testimonial d’eccezione come Antonio Banderas. Al di là del nome, la forza della campagna stava nella sua capacità di costruire una narrazione emotiva, calda, rassicurante. Non era solo il volto noto a funzionare ma la dimensione relazionale e affettiva che trasmetteva. Il volto di Banderas ha rappresentato per anni la proiezione visiva dei valori del brand: autenticità, semplicità, vicinanza.

Yamamay – influencer e body positivity

Yamamay ha scelto negli ultimi anni di legare la propria identità a volti reali, spesso provenienti dal mondo del fashion ma anche da quello del lifestyle e del benessere. Attraverso testimonial come Vanessa Incontrada o influencer come Giulia De Lellis, ha cercato di parlare a target diversi mantenendo una coerenza comunicativa basata su accettazione, empowerment e femminilità inclusiva. Il volto diventa veicolo di valori e non solo strumento promozionale.

Lamborghini – Chiara Ferragni e il lifestyle aspirazionale

Nel 2023, Lamborghini ha lanciato una collaborazione con Chiara Ferragni, integrandola in una strategia che unisce lusso, performance e lifestyle. È un caso interessante perché, pur trattandosi di un brand di fascia altissima, Lamborghini ha scelto una creator per “umanizzare” il prodotto e renderlo oggetto aspirazionale anche per un target più giovane, abituato a dialogare attraverso contenuti social. Il volto di Ferragni è diventato interfaccia accessibile di un brand altrimenti distante, mostrando come la creator economy possa ridisegnare anche la comunicazione luxury.

Esselunga – storytelling e volti della vita quotidiana

Con la controversa ma potentissima campagna “La Pesca”, Esselunga ha mostrato che non servono volti noti per costruire impatto emotivo. Tuttavia, nelle successive evoluzioni, il brand ha iniziato a lavorare con volti riconoscibili per la community online, come food creator e mamme influencer, per rendere il racconto ancora più personale. Esselunga sta lentamente spostando la propria brand identity verso un racconto fatto di persone reali, volti quotidiani e linguaggi relazionali mantenendo però un’estetica coerente con la sua comunicazione storica.

Acqua Vitasnella – Elodie come simbolo di autenticità e corpo libero

La collaborazione tra Elodie e Acqua Vitasnella ha segnato un cambio di passo nella comunicazione del brand. Non più solo focus su “forma e benessere” ma una narrazione più sfumata, incentrata sull’identità personale, la libertà di espressione, la rottura degli stereotipi. Elodie è un volto che porta con sé una forte carica simbolica, che amplifica il messaggio e rende il brand culturalmente rilevante per un pubblico giovane e attento.