Secondo appuntamento su branding e intelligenza artificiale.
Come abbiamo detto, l’AI offre opportunità incredibili ma rischia, se non usata nella maniera corretta, di appiattire un po’ tutto il panorama della comunicazione. Perché? Come perché? Se tutti usiamo gli stessi strumenti e restiamo molto generici sui prompt, rischiamo di avere output tutti uguali.
Essere più umani è una scelta, non una tecnologia
Essere più umani nel branding non è una questione di tecnologia. È una scelta. Ed è una scelta che oggi pesa più di prima, perché gli strumenti a disposizione rendono facilissimo fare, produrre, pubblicare. L’intelligenza artificiale ha abbassato drasticamente le barriere all’ingresso della comunicazione: chiunque può scrivere testi (più o meno) corretti, generare immagini (più o meno) convincenti, costruire contenuti (più o meno) ordinati in pochi minuti. Questo non è un problema in sé. Diventa un problema quando la facilità di produzione viene scambiata per identità di marca.
Un brand umano non è quello che rifiuta l’AI. È quello che sa usarla senza smettere di assumersi la responsabilità delle proprie scelte. La responsabilità di come parla, di cosa decide di dire, di cosa sceglie di non dire. Perché l’elemento umano di un brand non sta nello strumento utilizzato, sta nel punto di vista che guida ogni contenuto. Sta nella coerenza delle decisioni, nel modo in cui quelle decisioni si ripetono nel tempo e costruiscono una percezione riconoscibile.
Delegare tutto all’AI significa rinunciare a una parte fondamentale del lavoro di branding. Significa affidare a un sistema statistico ciò che dovrebbe essere il risultato di una visione. L’AI non conosce il contesto in cui il brand opera, non conosce le relazioni che ha costruito, non conosce le promesse implicite che ha fatto al proprio pubblico. Può imitare un tono, replicare uno stile, produrre testi fluidi. Non può decidere chi sei. E quando un brand smette di decidere chi è, qualcun altro lo farà al posto suo.
Il rischio non è quello di produrre contenuti sbagliati. Il rischio è produrre contenuti giusti, ma intercambiabili. Contenuti che funzionano tecnicamente ma che potrebbero appartenere a chiunque. È qui che l’umanità del brand inizia a sbiadire. Non con errori evidenti, ma con una progressiva perdita di specificità. Tutto diventa corretto, tutto diventa pulito, tutto diventa simile. E ciò che è simile smette di essere riconosciuto.
Essere più umani, oggi, significa fare l’operazione opposta. Significa usare l’AI per liberare tempo, energia e risorse, e investire quel tempo nella parte che nessuna tecnologia può sostituire: la costruzione dell’identità di marca. Significa chiarire il tono di voce, rafforzare il punto di vista, rendere esplicite le scelte narrative. Significa guidare la tecnologia invece di subirla.
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Branding più umano? Non delegare tutto all’AI
C’è un paradosso che sta emergendo con sempre maggiore chiarezza nel lavoro quotidiano di chi si occupa di comunicazione. Più gli strumenti diventano sofisticati e capaci di imitare il linguaggio umano, più i brand rischiano di perdere proprio ciò che li rende umani agli occhi delle persone. L’intelligenza artificiale promette velocità, ordine, coerenza formale. Tutte qualità utili, soprattutto quando i contenuti da gestire aumentano e i canali si moltiplicano. Il problema nasce quando questa promessa viene scambiata per una strategia.
Delegare all’AI la produzione dei contenuti senza una direzione chiara porta spesso a un risultato apparentemente impeccabile ma povero di personalità. I testi funzionano, scorrono bene, rispettano le regole. Le immagini sono curate, gradevoli, allineate a uno standard visivo riconoscibile. Eppure manca qualcosa. Manca quella sensazione di voce, di intenzione, di scelta. Manca l’elemento che fa dire a chi legge “questo brand lo riconosco”.
Essere più umani nel branding non significa rifiutare la tecnologia. Significa capire dove la tecnologia può aiutare e dove invece rischia di sostituire ciò che dovrebbe restare una responsabilità del brand: la costruzione di un’identità di brand riconoscibile.
Automazione e autenticità: un equilibrio fragile
L’automazione dei contenuti nasce con un obiettivo preciso: semplificare. Ridurre i tempi, ottimizzare le risorse, rendere scalabile ciò che prima era artigianale. In molti casi funziona. L’AI è estremamente efficace nel generare bozze, nel suggerire alternative, nel riorganizzare informazioni complesse. Il punto però non è cosa riesce a fare, ma come viene inserita nel processo.
Quando l’automazione diventa il centro della produzione, l’autenticità inizia a perdere spazio. Non perché l’AI produca contenuti scadenti ma perché tende a produrre contenuti medi. E il “medio” è l’esatto opposto di ciò che serve a un brand per distinguersi. Un brand non si posiziona perché comunica correttamente. Si posiziona perché comunica in modo coerente con la propria identità, anche quando questa coerenza comporta scelte meno ovvie o meno comode.
Il rischio è quello di confondere la qualità tecnica con la qualità percepita. La prima può essere molto alta anche senza una strategia di branding. La seconda no. La qualità percepita nasce dalla riconoscibilità, dalla continuità, dalla sensazione che dietro ai contenuti ci sia una visione chiara.
Il rischio della piatta uniformità nei contenuti
Uno degli effetti più evidenti dell’uso indiscriminato dell’AI nella comunicazione è la cosiddetta piatta uniformità. I contenuti iniziano ad assomigliarsi non solo all’interno dello stesso brand, ma anche tra brand diversi. Stesse strutture, stesso ritmo, stesso tipo di linguaggio. Cambiano i nomi, cambiano i prodotti, ma la voce resta sorprendentemente simile.
Questo accade perché i modelli di AI lavorano per probabilità. Tendono a riprodurre ciò che è più frequente, più riconosciuto, più “sicuro”. È un meccanismo naturale, che diventa un problema solo quando il brand non impone un proprio perimetro. Senza indicazioni precise, l’AI restituisce una media del linguaggio disponibile. E una media, per definizione, non distingue.
Nel tempo questo porta a un indebolimento del posizionamento. Se ogni contenuto potrebbe essere stato scritto da chiunque, il brand smette di essere un riferimento. Diventa uno dei tanti. Ed essere uno dei tanti è sempre una posizione scomoda, soprattutto in mercati affollati.
Ma quindi come fare contenuti diversi e adattabili al mio brand e solo al mio brand? Recentemente abbiamo scoperto il LOS (Language Operative System) e il VOS (Visual Operative System). Cosa sono?
Quando si parla di automazione dei contenuti, il punto non è soltanto cosa viene scritto ma anche come viene mostrato. Linguaggio e visual non sono due livelli separati, fanno parte dello stesso sistema percettivo. Per questo, accanto al Linguistic Operating System, è fondamentale considerare anche il Visual Operating System. Il LOS governa il modo in cui il brand pensa e articola i propri messaggi: il ritmo del ragionamento, la profondità delle spiegazioni, il lessico scelto e quello evitato, la postura con cui ci si rivolge al lettore. Il VOS fa la stessa cosa sul piano visivo: stabilisce forme, colori, composizione, uso dello spazio, livello di complessità delle immagini e rapporto tra elementi. Quando questi due sistemi non sono definiti e allineati, l’AI tende a produrre contenuti corretti ma scollegati tra loro. Testi che non suonano davvero come il brand e immagini che potrebbero appartenere a qualsiasi altra azienda.
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Un LOS e un VOS ben strutturati funzionano come una doppia griglia invisibile che orienta l’automazione. Il linguaggio resta coerente perché segue sempre lo stesso modo di argomentare, spiegare e prendere posizione. Il visual resta riconoscibile perché rispetta una grammatica precisa fatta di scelte ripetute nel tempo. In assenza di questi sistemi, l’intelligenza artificiale fa ciò per cui è progettata: replica pattern diffusi e soluzioni già viste. Il risultato è una comunicazione uniforme, tecnicamente impeccabile, ma priva di identità. Quando invece LOS e VOS sono chiari, l’AI diventa un acceleratore potente, capace di produrre più contenuti senza compromettere la riconoscibilità del brand.
Questo aspetto diventa centrale quando i volumi crescono e i canali aumentano. Senza un sistema linguistico e visivo condiviso, ogni contenuto rischia di essere un episodio isolato. Con un LOS e un VOS solidi, invece, anche l’automazione contribuisce a costruire continuità. Il brand resta umano perché mantiene il controllo sulle scelte che contano davvero: come parla e come si presenta. L’AI non decide l’identità, la amplifica. E quando identità verbale e identità visiva lavorano insieme, l’autenticità percepita non solo si preserva, ma diventa più forte anche in un contesto altamente automatizzato.
Poi non è che questi risolvono da soli tutti i problemi. Però aiutano.
Perché l’AI non può essere la voce del brand
Un brand non è solo ciò che dice. È come lo dice, quando lo dice e perché lo dice. La voce di un brand nasce da scelte ripetute nel tempo. Nasce da un punto di vista. Nasce anche da limiti, da cose che il brand decide di non dire o di non fare. L’AI non possiede questo tipo di intenzionalità. Non ha una storia, non ha un contesto culturale, non ha responsabilità. Può imitare uno stile, ma non può decidere quale stile rappresenti davvero il brand. Per questo motivo non può essere l’autore della comunicazione, al massimo può esserne un assistente.
Delegare tutto all’AI significa rinunciare a una parte fondamentale del lavoro di branding: la costruzione consapevole della voce. Una voce che non è solo un insieme di regole linguistiche, ma una postura. È il modo in cui il brand si mette in relazione con chi lo ascolta.
Cosa fare operativamente per non perdere autenticità usando l’AI
Proteggere l’autenticità di un brand mentre si introducono strumenti di intelligenza artificiale non è una questione di principio ma una questione di metodo. L’errore più comune è pensare che basti “stare attenti” o “rivedere i contenuti”. In realtà l’autenticità non si tutela con il controllo a valle, si costruisce a monte, definendo un sistema che orienta ogni decisione prima ancora che il contenuto venga prodotto.
Il primo passo è accettare che l’AI non può essere lasciata libera di decidere. Non perché sia pericolosa ma perché non ha una visione. Un brand autentico è il risultato di scelte ripetute nel tempo, spesso anche scomode o non ottimali dal punto di vista dell’efficienza. L’AI, per sua natura, tende invece verso ciò che è statisticamente corretto. Se non trova un perimetro chiaro, riempie quello spazio con soluzioni medie. Operativamente questo significa che prima di automatizzare bisogna fare un lavoro che molte aziende saltano: chiarire davvero chi si è.
Questo chiarimento non riguarda solo i valori dichiarati ma il modo concreto in cui il brand parla e si mostra. Serve definire il Linguistic Operating System e il Visual Operating System come sistemi vivi, non come documenti formali. Il LOS deve chiarire come il brand argomenta, che tipo di profondità cerca, che ritmo ha il suo pensiero, quali parole utilizza spesso e quali evita. Il VOS deve fare la stessa cosa sul piano visivo: stabilire che tipo di immagini funzionano, che livello di complessità è coerente, come vengono usati colori, spazi e gerarchie. Senza questi due sistemi l’AI non ha nulla da rispettare e quindi li sostituisce con modelli generici.
Una volta definiti LOS e VOS, il secondo passo operativo è tradurli in regole utilizzabili. Questo significa trasformare i principi in materiali concreti: esempi di testi corretti e testi sbagliati, immagini coerenti e immagini fuori tono, prompt strutturati che non chiedano solo “scrivi un post” ma che contengano indicazioni precise su stile, ritmo, profondità e intenzione. L’AI lavora molto meglio quando riceve vincoli chiari. Senza vincoli produce quantità. Con i vincoli produce coerenza.
Il terzo passaggio riguarda il ruolo delle persone nel processo. Usare l’AI non significa eliminare l’intervento umano, significa spostarlo. L’intervento umano deve concentrarsi sulle decisioni che contano: la scelta del messaggio, l’allineamento con il posizionamento, la verifica della coerenza narrativa. L’AI può generare varianti, suggerire alternative, accelerare la fase esplorativa. La versione finale, però, deve sempre passare da una valutazione consapevole. Non una revisione formale, ma una domanda semplice e potente: questo contenuto potrebbe appartenere a un altro brand? Se la risposta è sì, qualcosa non sta funzionando.
Un altro aspetto operativo spesso sottovalutato riguarda la gestione della ripetizione. L’autenticità non nasce dall’originalità continua, nasce dalla coerenza. Un brand riconoscibile ripete gli stessi concetti, gli stessi toni, le stesse scelte visive in modi leggermente diversi. L’AI, se non guidata, tende invece a variare troppo, a cambiare registro, a cercare continuamente soluzioni nuove. Operativamente questo significa insegnare al sistema quando è giusto ripetere e quando è giusto innovare. Anche questo fa parte del LOS e del VOS: decidere cosa deve restare stabile e cosa può cambiare.
Infine c’è un tema di misurazione, spesso affrontato solo in termini di performance. Per non perdere autenticità serve osservare anche segnali qualitativi. Come reagiscono le persone ai contenuti? Riconoscono la voce del brand? I messaggi rafforzano la percezione desiderata lungo il percorso di acquisto? Se i contenuti funzionano in termini di numeri ma indeboliscono la riconoscibilità, il prezzo si paga nel medio periodo. Operativamente significa affiancare alle metriche quantitative una valutazione costante della coerenza.
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Usare l’AI senza perdere autenticità richiede un cambio di approccio. Non si parte dallo strumento, si parte dal sistema. Non si delega la visione, si delega l’esecuzione. Quando il brand mantiene il controllo su linguaggio e visual, l’intelligenza artificiale diventa un alleato prezioso. Quando questo controllo manca, l’automazione accelera la perdita di identità. E recuperarla, una volta persa, è sempre molto più complesso che proteggerla dall’inizio.