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Branding e AI: quando i touchpoint sono tutti uguali, quello che conta è solo il brand

Quando i touchpoint sono tutti uguali, quello che conta è solo il brand

 

Per anni il lavoro su marketing e comunicazione si è concentrato sull’integrazione dei canali e il lavoro di branding è stato fatto ma senza troppo entusiasmo da molte aziende. Il brand esiste indipendentemente dagli sforzi di un’azienda di costruirgli addosso una vera identità. C’è un logo e per la maggior parte è più che sufficiente.

Si è inoltre parlato per anni di omnicanalità come della soluzione ideale per costruire esperienze fluide: creare continuità tra lo store fisico, l’e-commerce, il CRM, i social e tutto l’ecosistema digitale. L’obiettivo era uno: permettere al cliente di muoversi liberamente tra i touchpoint senza percepire frizioni (usiamo il tempo passato ma è ancora così).

Abbiamo investito tempo, tecnologia e risorse per sincronizzare dati, messaggi e comportamenti. Tutto con l’idea che, se fossimo riusciti a governare bene i nostri canali, avremmo potuto governare anche l’esperienza del cliente. Ma qualcosa è cambiato. Oggi i canali non bastano più. E, a dire il vero, non sono nemmeno più nostri.

Il cliente si muove in un ambiente diverso da quello che abbiamo progettato. Non arriva direttamente sul nostro sito, non parte da una newsletter, non inizia un percorso predefinito. In molti casi, la prima interazione con il nostro brand non avviene in un canale che gestiamo ma in un contesto esterno e filtrato: un feed di social media, un assistente vocale, un suggerimento automatico, un comparatore o una risposta generata da un sistema di intelligenza artificiale.

È l’algoritmo a decidere cosa mostrare. E il cliente tendenzialmente si muove dove lo guida il sistema. Questo significa che i touchpoint sono diventati intercambiabili, indistinguibili. Non sono più spazi distintivi. Sono contenitori che mostrano ciò che qualcun altro ha deciso di mostrare.

In questa situazione, continuare a investire sull’ottimizzazione dei singoli canali può diventare una trappola. Si rischia di perfezionare qualcosa che il cliente non vede più, o che vede solo in minima parte.

La vera domanda quindi non è più: “come posso collegare meglio store, sito, app e CRM?”
Ma: “cosa mi resta davvero quando il cliente non passa più da lì?”

La risposta è chiara. Resta il brand.

Il brand è l’unico elemento che accompagna il cliente anche quando il canale non è nostro. È ciò che il cliente riconosce, ricorda, cerca. È ciò che fa la differenza anche quando il prezzo è più alto o quando la scelta è dettata da un suggerimento dell’AI.

Tutto il resto — tecnologia, piattaforme, processi — può essere aggiornato, integrato o replicato. Il brand no. Il brand è l’unico vero asset strategico. L’unico che può attraversare tutti i canali, sopravvivere a tutti gli algoritmi e mantenere valore anche quando l’interfaccia finale non ci appartiene più.

Per questo oggi la priorità non è più ottimizzare i canali, ma potenziare la marca perché lavorare sul journey non basta, se il cliente non si ricorda chi siamo. Investire nel brand significa costruire l’unico vantaggio competitivo che nessun algoritmo può sostituire.

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Il declino dell’omnichannel così come lo conoscevamo

Partiamo dal presupposto, forse pretenzioso, che una strategia omnichannel sia effettivamente fattibile (cosa della quale di fatto possiamo anche dubitare).

Il termine omnichannel è stato per anni la parola‑magica del retail e della comunicazione: integrare store fisico, e‑commerce, mobile, marketplace in una visione fluida del cliente. Ma oggi quell’approccio (mai peraltro veramente realizzato in concreto, non almeno come la teoria avrebbe voluto) risulta inadeguato perché presuppone che siamo noi a gestire e sincronizzare i canali, mentre la realtà sta andando in una direzione diversa. Il cliente decide dove, quando e come interagire. Spesso però l’interazione non passa da un canale controllato: l’incontro può avvenire su un feed personalizzato, attraverso un assistente AI, mediante aggregatori che non appartengono al nostro ecosistema.

Basta pensare a Gemini che si intromette in ogni ricerca che facciamo in Google cercando (spesso riuscendoci) di dare una prima risposta che spesso spegne ogni entusiasmo di andare ad approfondire oltre. Questo apre quesiti: significa che in un futuro sito e SEO non serviranno più? Quando Google deciderà di non mostrare risultati ma di mostrare solo una grossa chat con Gemini che ci darà ogni risposta immaginabile?

Standardizzare il customer journey attraverso i canali quindi non basta più. Il vero problema è che non siamo più padroni della sequenza, della piattaforma, del momento. I touchpoint diventano esterni, mediati da logiche che non possiamo gestire. In questo scenario perpetuare un’ottica di “integrazione dei canali” rischia di essere un’attività difensiva che distrae dal vero obiettivo: è un po’ come la “mossa Kansas City” (Lucky Number Slevin, se non l’hai mai visto corri a cercarlo su qualche piattaforma di streaming), guardo da una parte mentre succede qualcosa dall’altra.

Occorre quindi rivedere il paradigma: non “quali canali attivo” ma “con quale promessa arrivo” e “in che contesto mi riconosco”. I canali diventano strumenti volatili, sostituibili. Può cambiare la piattaforma, cambiare l’interfaccia, cambiare l’algoritmo. Ma ciò che deve restare fermo è la ragione stessa per cui il cliente sceglie di interagire con noi. E questa ragione è il brand.

Perché il brand è l’unica leva stabile

Chi si occupa di branding sa che un brand forte è l’asset che può generare vantaggio competitivo reale. Un brand è l’insieme delle percezioni, delle promesse mantenute, delle associazioni che i clienti portano con sé. Quando tutto il resto – prodotto, prezzo, canale – entra in una logica di commodity o di facilità di replicazione, il brand diventa ciò che differenzia, ciò che resiste.

In un contesto phygital mediato dall’algoritmo, il brand è ciò che attraversa l’esperienza del cliente indipendentemente dal “dove” e dal “come”. Se l’algoritmo decide che il feed mostra un prodotto ma quel prodotto è firmato dal tuo brand, quel “veicolo” diventa rilevante. Se il cliente interagisce tramite un assistente AI e vede la tua marca, quella è la “porta” che riconosce, non il canale.

Per questo oggi il lavoro di branding non può più essere considerato un’attività creativa a supporto del marketing. È una scelta strategica che impatta su tutto: visibilità, preferenza, scelta, fiducia. La marca è l’unico asset che non subisce il cambiamento del contestok ma lo attraversa. È l’unica infrastruttura che non si rompe quando cambia l’interfaccia. È l’unico vantaggio che non si comprime sotto la logica del prezzo.

In definitiva, se l’interazione passa da sistemi che non controlli, la differenza non la fa più il canale. La fa il nome che c’è sopra. E quando non sai più quale touchpoint vedrà per primo il tuo cliente, meglio che veda una marca che ha già scelto.

Ripensare l’esperienza cliente a partire dal brand

Se il brand è l’unico asset veramente nostro, allora è da lì che deve partire ogni decisione. Non si tratta più (solo) di costruire esperienze clienti coerenti tra i canali ma di costruire esperienze coerenti con la marca.

Il punto quindi non è far funzionare i touchpoint ma rendere riconoscibile la promessa del brand ovunque avvenga l’interazione. Che sia su un feed, in un assistente vocale o dentro un’app, il cliente non valuta la qualità del canale: valuta se riconosce ciò che gli avevamo promesso. Questo cambia tutto. Cambia il modo in cui progettiamo l’esperienza. Cambia le priorità. Cambia le metriche.

Significa fare scelte in base alla marca e non al formato. Significa chiedersi:

  • Questa esperienza è all’altezza del nostro posizionamento?
  • Questo messaggio riflette la nostra promessa?
  • Questo contenuto, anche se generato da un sistema, porta con sé il nostro valore?

Un brand forte non si limita a “comparire” nei canali. Li attraversa. E soprattutto orienta ogni scelta: di tono, di linguaggio, di investimento, di visione. Riconoscibilità, coerenza ed evoluzione non sono più solo caratteristiche dei touchpoint ma risultati di una intensa e coerente attività di branding:

  • Un brand riconoscibile viene scelto prima di essere cercato.
  • Un brand coerente costruisce fiducia anche in contesti automatizzati.
  • Un brand che evolve rimane rilevante anche quando i comportamenti cambiano.

Ecco perché oggi non serve costruire un customer journey integrato. Serve costruire una marca integrata in ogni momento della relazione. Il brand non è il risultato finale del marketing. È il punto di partenza.

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Il brand come interfaccia: quando il logo è il nuovo store

Il concetto di interfaccia ha sempre riguardato il “dove” avviene l’interazione. Per anni è stato il sito, l’app, lo store fisico, il catalogo o il punto vendita. Ma nel contesto attuale, dominato da feed, AI e micro-interazioni, il brand stesso diventa interfaccia primaria. Il logo non è più un segno che decora un punto vendita ma un punto di ingresso in un’esperienza che potrebbe cominciare su un assistente vocale, in un carosello social, in un elenco prodotto su un comparatore, in una risposta generata dall’intelligenza artificiale.

Oggi, in molti casi, l’utente non vede prima il prodotto ma il marchio. Non entra nel sito: vede il logo associato a una recensione. Non apre la tua app: riceve un consiglio da un chatbot. Non entra nel tuo store: trova un tuo contenuto suggerito da un algoritmo. In ognuna di queste situazioni, il brand è l’elemento che media il contatto. È la nuova interfaccia.

Questo cambiamento impone un ripensamento totale della costruzione dell’identità visiva e verbale. Il logo, il naming, la tagline, i colori, il tono di voce devono funzionare anche quando il contesto visivo è limitato, quando la tua presenza si riduce a un’icona, un nome, un titolo. Deve bastare una frazione di secondo per riconoscerti: l’attenzione si guadagna solo se sei riconoscibile. E se sei riconoscibile, puoi essere scelto. Il brand si comporta quindi come un’interfaccia ad alta efficienza cognitiva: se serve decifrare troppo, il cliente passa oltre.

In molti casi, questa interfaccia vive in ambienti che non controlli. Feed di social network, comparatori, marketplace, sistemi conversazionali, assistenti vocali. Ecco perché il brand deve essere progettato per resistere all’astrazione. Quando l’esperienza viene sintetizzata, compressa, riassunta da un sistema AI, il tuo brand deve emergere come la cosa giusta, non solo una tra tante. È un salto di paradigma: se prima il logo introduceva l’esperienza, oggi è l’esperienza. È lo spazio minimo, l’interfaccia simbolica che veicola tutto ciò che c’è dietro — fiducia, qualità, emozione, scelta.

Per questo investire nel brand oggi non significa solo costruire awareness. Significa progettare un’interfaccia leggibile, pronta a rappresentarti quando il contesto non sarà più tuo.

L’errore più comune: ottimizzare il canale invece del valore percepito

Nel marketing contemporaneo, uno degli errori più diffusi, e più costosi, è quello di ottimizzare il canale anziché il valore percepito del brand. Si tratta di una trappola insidiosa: i dati di canale sono facilmente misurabili, offrono feedback immediati, danno l’impressione di controllo. Ma concentrarsi esclusivamente sul migliorare KPI come il tasso di conversione, il bounce rate o il CPA può portare a una forma di miopia strategica: si lavora sull’efficienza ma si dimentica la rilevanza.

Quando si opera in contesti mediati da AI, questa miopia diventa ancora più pericolosa. Un canale può essere perfettamente ottimizzato ma completamente inutile se il brand non ha abbastanza forza da essere scelto dall’algoritmo. La visibilità, la priorità e la fiducia non vengono assegnate solo sulla base della performance tecnica del touchpoint ma sulla base di segnali di valore: quanto sei riconoscibile? Quanto sei cercato direttamente? Quante emozioni positive generi? Qual è la tua reputazione? Che tipo di associazioni semantiche evochi?

Continuare a investire in ottimizzazione senza lavorare sul significato e sul posizionamento porta a un risultato sterile: un’esperienza fluida ma priva di trazione. Un sito perfetto ma dimenticabile. Una customer journey ben disegnata che non lascia alcuna impronta emotiva. In un mondo dove l’attenzione è merce rara, l’unica cosa che fa la differenza è ciò che il cliente ricorda, racconta, cerca spontaneamente.

Il valore percepito non è un effetto secondario del canale: è un obiettivo primario. Se il brand non riesce a comunicare una promessa forte e distinta, l’ottimizzazione dei canali rischia di essere un esercizio tecnico scollegato dal risultato reale. Le aziende che vincono non sono quelle che performano meglio nel singolo canale ma quelle che costruiscono una marca che mantiene coerenza e impatto in tutti i contesti, anche quelli che non controllano più.

Il valore percepito diventa la metrica invisibile che orienta la visibilità. Non puoi ottimizzare un canale che nessuno vede. Ma puoi costruire un brand che diventa così rilevante da essere scelto anche quando il canale cambia. L’efficienza serve. Ma non può sostituire il significato.

Esempi pratici di brand che navigano questo nuovo scenario

Nike: un marchio che non vende più solo scarpe o abbigliamento sportivo ma una promessa di performance, empowerment e cultura. Anche se l’interazione avviene attraverso un’app, un marketplace, un retailer fisico o un assistente vocale, è “Nike” che guida la scelta. Il canale cambia, la marca resta.

Apple: non è solo un dispositivo ma un ecosistema, un’esperienza riconoscibile. Quando l’algoritmo mostra “iPhone” o “MacBook” o quando un cliente chiede a un assistente “consigliami un computer”, è la marca che entra nel feed. Il marchio diventa la porta, non il canale.

Zalando: in un contesto digital‑first, ha investito fin da subito su riconoscibilità, semplicità, servizio. Anche se il cliente può accedere tramite app, web, marketplace, social, è “Zalando” che compie il viaggio con lui. Il brand è il filo conduttore tra touchpoint.

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Questi esempi mostrano che quando i canali si fanno mediati dall’algoritmo, la marca diventa il canale “zero” (un po’ come il paziente, si capiva?). È quel “luogo” mentale e di fiducia in cui il cliente entra prima ancora di scegliere dove interagire.

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